Si può dare per assodato: alla moda non interessa la sostenibilità. Proviamo ad andare oltre. Cerchiamo la creatività – sì, con poliuretani, elastici e plastiche – ma cerchiamo una creatività forte, un disegno d’azzardo, un’idea inedita. Qualcosa che stia influenzando tutto il resto così come la moda è chiamata a fare. Non è rassegnazione, ma reazione: è virtù della creatività trovare soluzioni che non sappiamo immaginare, che non sappiamo aspettare. La creatività si trova da Duran Lantink. Se ne è parlato tanto. I vestiti si staccano dal corpo, inventando volumi, trovando ironia e sprezzatura, raccontando un approccio scultoreo. L’asserzione è la più legittima per la moda: non esiste una bellezza data. I canoni estetici non devono – non avrebbero mai dovuto - essere standardizzati. Bruttezza e bellezza non sono concetti che la moda oggi può veicolare – e questo, le generazioni precedenti e i manager aziendali, devono accettarlo. In termini di creatività, la citazione di Alaia per Pieter Mulier. Sembra sussista un dialogo tra Duran Lantink e queste evoluzioni volumetriche su Alaia che per tradizione rimaneva aderente al corpo. Ai tempi, Azzedine Alaia usò fibra sintetica ed elastica prodotta in Italia, che a sapeva di innovazione – oggi, queste strutture elastiche esplodono in macro-passamanerie che diventano vesti, scialli, ornamenti, giubbotti sbracciati. Sono vestiti o disegni applicati al corpo femminile. Per questa digressione sui volumi e sulle espansioni catalizzati da Duran Lantink troviamo anche un accenno da Schiapparelli. Tanto di tutto il resto, di quello che si vede a Parigi, è sviluppo di un brand commerciale – ovvero il regno di Anna Wintour. Una donna che un tempo produceva la sensazione di potere, e che oggi è l’icona del consumismo americano. Professionalmente, Anna Wintour è la sintesi simbolica di ogni ragione a cui è dovuta la crisi che la moda sta attraversando. Carlo MazzoniT esto completo online Lampoon Magazine dot com
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Aggiornamenti
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Sul web girano le immagini di una striscia di Gaza trasformata in una riviera da Trump e Musk – e l’algoritmo ti porta a seguire un’uscita della sfilata di Dsquared2. Lo stesso stile, lo stesso sdegno. La stessa mancanza di rispetto. Perché il rispetto, prima di tutto, deve restare: per un territorio massacrato lungo i secoli, su cui nessuno dovrebbe permettersi di esprimersi senza piangere; per un momento storico in cui il ritornello di Drill Baby Drill non si ferma neanche davanti ai funerali della famiglia Bibas. Può sembrare offensivo paragonare la tragedia di Gaza, l’orrore, la pena e la commozione, il rancore e lo sdegno, con una stupida sfilata celebrativa. Modelli in mutande, nani che saltano, giubbotti di pelle inquinante. Non si possono paragonare e non si dovrebbero mai avvicinare – ma gli algoritmi di Meta lo fanno senza indugio. Migliaia di presone sono ipnotizzate per colpa dell’algoritmo, geolocalizzato a Milano. Che poi, della sfilata di Dsquared2, qui a Milano poco interessa. Solo fastidio. La moda è ancora così effimera? O forse è l’algoritmo a essere effimero? Quell’algoritmo che sta manipolando i neuroni dei ragazzi giovani che non sono ormai capaci neanche di fare le operazioni intellettuali più semplici, a cui non è richiesto più di studiare il latino perché è una perdita di tempo ed è più che sufficiente saper parlare in inglese. Articolo completo online Testo: Carlo Mazzoni
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Quest’anno c’è il bambino prodigio che suona il pianoforte e il ragazzino che sa tutto di Sanremo. La disabilità e l’inclusione sono state messa in scena dal Teatro Patologico, a cui si è stato concesso di parlare – con la pressione di rispettare la scaletta al secondo. Il rappresentante della quota gay è stato Cristiano Malgioglio. Arrivato a Ottant’anni, ha mantenuto la sua istrionicità e stravaganza, ma non dà fastidio a nessuno (ed è facile da prendere in giro). La parte comica è stata affidata a Nino Frassica e Katia Follesa, entrambi portavoce di una comicità safe – che fa sempre ridere, ma senza colpi di scena e senza spazio per i monologhi. L’unica che avrebbe forse potuto dire qualcosa, Virgina Raffaele, è relegata alla pubblicità dell’Eni.
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Oliviero Toscani: i committenti «dei cretini», l’alta moda «per ridere» Quando Oliviero Toscani presentava la sua autobiografia Ne ho fatte di tutti i colori. Vita e fortuna di un situazionista. «Karl Schmid Mi mise alla prova sul disegno e mi regalò una lezione: non disegnare i corpi, ma l’aria che li avvolge»
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Noi siamo il popolo dei tram di Milano. Scegliamo la superficie invece delle gallerie sotterranee, perché sui vetri si riflette l’architettura di questa città, che non stanca mai. Siamo il popolo dei tram di Milano perché vogliamo vivere il tragitto, non solo arrivare a destinazione. Ritagli di tempo che diventano parentesi di osservazione, immersi in una comunità che si muove, legge, conversa, studia o lavora. Siamo il popolo dei tram di Milano e, quando saliamo a bordo, ripensiamo alla nostra vita in città, alla giornata che sta iniziando o che si è appena conclusa. Nel bene e nel male, abbiamo scelto Milano. E Milano ringrazia: si lascia attraversare, da un capo all’altro, in meno di mezz’ora, se usiamo i mezzi pubblici. Secondo il report Ecosistema Urbano 2024 de Il Sole 24 Ore, Milano vanta la maggiore offerta di trasporto pubblico in Italia, con linee che coprono oltre 111 km per abitante (un dato ottenuto dividendo il totale dei chilometri percorsi dai mezzi in città per il numero di abitanti). Questa disponibilità riguarda non solo i tram, ma anche metropolitane e autobus, che compongono un sistema integrato e funzionale. La rete tramviaria di ATM (Azienda Trasporti Milanesi) conta oggi diciassette linee attive per un totale di circa 170 chilometri di binari. Il tram a Milano è un pilastro del trasporto pubblico. Insieme alle cinque linee di metropolitana operative (in attesa dei prolungamenti futuri) e a una capillare rete di autobus, forma un ecosistema di mobilità tra i più apprezzati in Italia per efficienza e capillarità. Noi siamo il popolo dei tram di Milano, ed è a noi che #LouisVuitton ha voluto parlare in questi giorni, esaltando valori condivisi come l’appartenenza alla comunità e il senso civico che il tram, simbolo di una “buona società” meneghina, rappresenta. Perché anche chi potrebbe permettersi un taxi, sceglie il tram: è una questione di identità, di partecipazione. Ed è proprio in questa visione che si inserisce l’iniziativa promossa dalla Maison francese in collaborazione con #ATM. Louis Vuitton ha decorato due tram storici degli anni Venti con il Monogram Multicolor ispirato all’estetica di Takashi #Murakami.
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La tristezza di Piazza San Babila: perché il progetto di un albero in plastica? Chi scrive cerca di tenere a freno la voglia di polemica e resiste alla tristezza di fronte a tanto degrado morale e civile – la domanda vuole essere posta: perché il bando comunale non impone un messaggio positivo ai decori natalizi? Perché il progetto di un albero in plastica, di centinaia di elementi di plastica sospesi, non può prevedere la sostituzione di quei lampioni da autostrada sul marciapiede di Palazzo Donini con una legittima copia dei lampioni del Gardella che segnano il centro dello spazio? Sarebbe un dono alla città e a tutti noi, da parte di chi, per Natale, trasforma la piazza di tutti in una vetrina per gli acquisti. Perché lungo il Corso Vittorio Emanuele, per ogni Natale comandato, non viene chiesto allo sponsor che riesce a dominarlo, di disporre arbusti in vaso lungo il percorso? Arbusti illuminati con semplici e dignitose luci d’orate che poi possano essere piantati nei giardini delle scuole di periferia. Il bando comunale prevede che, per ogni intervento nelle zone centrali, focali per gli scopi commerciali, lo sponsor si debba far carico dell’illuminazione di una via periferica – d’accordo, ma quando si rimane astanti di fronte a un tale dispiego di materiale plastico in San Babila, a un tale intervento di potere di marketing, a questo tripudio di nero, fucsia e bianco, sorge la perplessità: è questo che una città laboriosa, operosa, onesta e borghese come Milano, vuole raccontare ai suoi abitanti per Natale? Non ci potrebbe essere un messaggio in più, un segno in più, che la potenza economica di Sephora, potrebbe firmare? Soprattutto, la domanda è: il Comune ha chiesto a Sephora di farlo, questo qualche cosa in più? Se il Comune avesse chiesto a Sephora di lasciare un segno positivo, che restasse in città dopo la dipartita della Befana, con tutta la risorsa economica investita da Sephora per queste sue gigantografie nere e fucsia, è probabile che Sephora avrebbe acconsentito. Testo Carlo Mazzoni continua a leggere su Lampoon Magazine dot com
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Elsa Maxwell was in love with Maria Callas. A writer and journalist, Maxwell, with her connections and her desire to entertain, amuse, and organize parties, had made the Lido of Venice a stop in the leisurely wanderings of high society in the 1940s and 1950s—the Café Society that emerged after World War II and would soon be called the Jet Set. “The Hostess with the Mostes'”—that’s how Irving Berlin referred to Maxwell in a song, and so she remained famous. A lesbian never hidden but never declared, she fell in love with Callas when Callas was married to Meneghini, perhaps truly without ever sharing a bed. Some say it was Maxwell who introduced Callas to Onassis—but this doesn’t happen in Larraín’s biopic. Maxwell quarreled with Callas and distanced herself when the relationship with the shipowner became anything but platonic, and jealousy couldn’t bear it. Maxwell would soon also quarrel with Wallis Simpson, Duchess of Windsor—but that’s another story. Read the full article online: https://shorturl.at/ngZjm The Rough Voice of a Rough Woman: Maria Callas by Angelina Jolie The roughness of voice and character in Pablo Larraín’s Maria, a biopic on Callas portrayed by Angelina Jolie
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#GaetanoPesce a #Napoli, ieri come oggi, rompe le regole. Raccontava a Lampoon nel 2023: «Cerco di comprendere il tempo in cui viviamo, un tempo che si muove più velocemente rispetto al passato, cambia valori ed è contraddittorio. Da giovane, avevo una compagna straordinaria e intelligente, Milena Vettore, che mi ha aiutato a capire quale doveva essere il mio ruolo nel mondo. Con lei ho capito che il mio comportamento doveva essere guidato dall’incoerenza. Il nostro tempo è incoerente, pieno di informazioni che rendono impossibile avere una logica o una direzione. Il nostro tempo ci fa pensare in un modo oggi, ma forse nel modo opposto domani. La nostra volontà di essere lineari può solo scomparire e diventiamo liquidi, come il nostro tempo. Ecco perché mi stanco facilmente di ciò che faccio e non voglio rivedere il giorno successivo ciò che ho realizzato il giorno prima, perché non voglio annoiarmi. Ho bisogno di sperimentare e di essere felice di ciò che faccio. Se mi trovo a dover ripetere, a dover riflettere su qualcosa del passato, mi deprimo. Cerco di evitare questo tipo di coerenza». Intervista di Elisa Russo
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Può l’Europa imporsi nello sviluppo dell’intelligenza artificiale? Potrebbe, ma non si sta impegnando per farlo. «Stiamo perdendo il treno della storia. Siamo stati i primi a legiferare sul controllo dell’IA, lasciando però agli altri il ruolo di farla», sintetizza Mattia Mor imprenditore ed ex deputato. È cofondatore di Emotion Network, piattaforma dietro il progetto Tech.Emotion, che indaga proprio su come sviluppare il potenziale italiano nel campo della #tecnologia. Da tre anni ormai organizza un summit per discutere di questi temi. Tra gli ospiti dell’ultima edizione c’era anche Alec Ross, consulente per l’innovazione del Segretario di Stato Usa con Barack Obama. «Ha sottolineato che è come se la Cina e gli Stati Uniti stessero giocando una partita di calcio, con l’Unione europea a fare da arbitro. Stiamo perdendo una grande occasione per creare valore per i nostri abitanti. Senza dimenticare l’impatto sul lavoro», dice Mor. «Trent’anni fa il pil dell’Unione europea era di 15 trilioni di dollari, allo stesso livello di quello statunitense. Adesso noi siamo a 18 trilioni, gli Stati Uniti a 40. Al netto della perdita del Regno Unito, è una follia pensarci: la maggior parte della crescita americana è trainata dalla tecnologia, basta guardare alle società capitalizzate in Borsa». Rimanere fuori da questa corsa è un «problema di sviluppo». Si rischia, continua Mor, di «diventare un bellissimo luogo per le vacanze e basta, come già dicono spesso i manager americani». Per rientrare in careggiata servirebbero «più investimenti in innovazione, ma in maniera congiunta europea e senza mettere barriere tra Paesi». Cosa ha in serbo il futuro per l’Ue ancora non è chiaro, specie dopo l’ultima tornata elettorale per l’Europarlamento, che ha visto avanzare – pur senza trionfare – l’armata degli euroscettici. «Non penso che a lungo termine avrà ripercussioni sull’unità del Continente, però potrebbe averle in termini di occasioni mancate. Come in tutti i campi, anche per la tecnologia serve un’Europa più unita, con un mercato di capitali comuni e la parte degli investimenti comuni. L’euroscetticismo potrebbe minare queste prospettive. Verranno implementate politiche favorevoli a livello di innovazione? Se tanto mi dà tanto no». Testo: Giacomo Cadeddu