Sono di questi giorni le notizie di episodi di “agitazione” e tensione accaduti dentro alcuni istituti detentivi, gli ultimi ad Avellino, Torino, Aversa. Occasioni di conflitto tra detenuti e agenti, o tra gli stessi detenuti, devono essere ritenute fisiologicamente connaturate all’attività di gestione e al mantenimento della sicurezza interna, perché attengono ad una interiorizzazione anche simbolica delle dinamiche di contrapposizione che il carcere di per sé genera riguardo al rapporto del personale (che a vario titolo rappresenta l’istituzione) con i ristretti e di ogni singolo detenuto con gli altri, dati gli attriti che una convivenza forzata e piena di limitazioni inevitabilmente può produrre. Occorre però evitare due rischi. - Uno è quello di trasmettere, come fanno i media (cavalcando una certa linea politica di allarme verso questo settore) un’enfasi eccessiva sugli aspetti di pericolosità e di sconfinamento di questi episodi nell’ingestibilità, con la conseguente legittimazione esclusiva di misure severamente punitive, dal punto di vista disciplinare per i soggetti che hanno dimostrato, in modo fisico, verbale (o interpretando persino la resistenza passiva quale forma di rivolta, come si legge nei disegni di legge del cosiddetto “Pacchetto sicurezza”) un agito di insubordinazione o di attacco/risposta con elementi di aggressività, contrasto, rifiuto di accettare un ordine. Costruire la narrazione di un clima incandescente, appare spesso come il gridare “A fuoco, a fuoco!”, e dare a vedere l’incendio per poi dire che mancano i pompieri. - L’altro rischio è quello di spostare la logica della amministrazione detentiva in tema di conflittualità interna solo sul piano dell’illecito e perciò della conseguenza penalmente o disciplinarmente rilevante a carico dei detenuti che sono ritenuti responsabili di comportamenti oppositivi. Ciò porta a considerare il carcere alla stregua di un fronte in cui si combatte continuamente una guerra tra nemici (salvo che si tratta di contendenti che non hanno armi pari). Al contrario, occorre recuperare (il terreno di lavoro c’è, anche a livello di regole europee a cui conformarsi) una logica di “spegnimento” delle tensioni in chiave riparativa, perché un’istituzione che vive di continue fratture e strappi deve cogliere nel “rammendo” la forma di migliore composizione possibile delle lotte e rotture dell’ordine interno. Ci illumina a riguardo l’articolo di Antonio Gelardi, già Direttore penitenziario, Rammendare è esercizio di umanità. #carcere #detenuti #rivolte #giustiziariparativa 👇 👇 ⛓ https://lnkd.in/edTWsxEH
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