Da qualche giorno nel web gira un articolo che, in un certo senso difende a spada tratta una categoria, quella degli storici dell’arte, già ampiamente tutelata e professionalmente riconosciuta, e “attacca frontalmente” l’opportunità che alla guida di alcuni musei possano esserci delle figure di “manager culturali”, senza però poi definire chi (o cosa) siano poi questi manager.
E se in alcuni casi -un po’ particolari- si può anche esser d’accordo, forse occorrerebbe innanzitutto proprio definire cosa significhi questa etichetta per capirne pregi e difetti (magari evitando paragoni fuori luogo: “il direttore del MoMa ha alle sue dipendenze, oltre a decine di curatori, un solido staff di manager -finanza, amministrazione, marketing, comunicazione, fund raising ecc. - che gli consente di fare prettamente lo storico dell'arte”. Utopia pura in Italia).
E ciò perché, oggi come oggi, le evoluzioni cui sono chiamati a rispondere gli istituti di cultura richiamano giocoforza la necessità di cambiamenti anche gestionali. Negarlo significa non aver capito la portata di questi cambiamenti relegando i musei a meri contenitori, o meglio, vetrine proprio dei direttori/curatori.
Piaccia o no, i musei non sono più (e saranno sempre meno) quelli di cento anni fa, investiti come sono di ruoli e responsabilità tempo addietro impensabili.
Allora, fuor di polemica, forse la quadra non sta nel proporre pedissequamente un binomio contrapposto, bianco nero, buono cattivo, bello brutto, ma sta nel considerare una sana complementarietà, ovvero che ai musei, oggi, più che direttori manager (nel senso più stretto del termine), servono professionisti della cultura con anche competenze manageriali, come viene detto… cosa che spesso manca a molte categorie conclamate del settore e non per ignoranza o indolenza, ma semplicemente perché professionalmente si sono dedicate ad altro e nessuno può esser tuttologo.