2021: Anno 1° d.C. (dopo Coronavirus)

2021: Anno 1° d.C. (dopo Coronavirus)

di Andrea Donato - Change Mentor, Innovation manager

Premessa

In Italia non si sente certo la mancanza di profeti di sventura sulle sorti del Paese, ma al novero se ne aggiunge un altro: io!

Mi unisco al coro dei pessimisti perché penso che, se l'ottimismo e la positività di pensiero siano una dote, l'illudersi senza fondamento sia parimenti un'idiozia.

Come mai non nutro grande fiducia sul nostro futuro? È la conseguenza della semplice applicazione di ragionamento, logica, lettura dei dati e analisi oggettiva delle informazioni, aldilà delle (in)capacità dei nostri governanti, politici e burocrati.

La recente discesa in campo di una figura di altissimo prestigio come Mario Draghi, nonostante le riconosciute grandi competenze e capacità che alimentano legittime attese e speranze, non potrà incidere in profondità sulle numerose riforme che languono da decenni, perché per quanto esperto e capace dovrà fare i conti con il corpaccione dello Stato – che tutto digerisce, assimila e metabolizza - e le meschinità di piccolo cabotaggio della politica. Soprattutto non è dato sapere quanto tempo gli sarà concesso, prima di essere messo in condizione di non nuocere.

Quindi tutto depone ancora per un continuo declino che ci allontanerà dai Paesi trainanti e ci metterà ai margini delle Nazioni che contano nel mondo.

Qualche dato a supporto della mia tesi?

Cominciamo con i devastanti numeri di Confcommercio, che per il 2020 stima la chiusura definitiva di oltre 390mila imprese del commercio non alimentare e dei servizi in generale, marginalmente attenuato da 85mila nuove aperture. Se a ciò si aggiunge la perdita di 430mila posti di lavoro (nonostante il blocco dei licenziamenti) e di oltre 200 mila partite Iva e la valutazione di Confcommercio che stima un numero di imprese chiuse a causa della pandemia pari ad almeno 240mila unità, solo fino ad adesso, emerge un quadro terrificante per il futuro.

Inoltre l'ISTAT certifica che da oltre 20 anni ormai l'industria italiana ha un enorme problema di bassa produttività del lavoro e degli investimenti.

Il mezzo punto di calo della produttività italiana rilevato nel 2019 sancisce infatti il punto più basso della crescita zero che ci affligge da vent'anni, con il paradosso che sono aumentate sia le ore lavorate, sia gli investimenti in beni strumentali e tecnologie, senza che questo abbia avuto alcuna ricaduta sulla crescita. Quindi lavoriamo di più e peggio!

Ciò significa in sostanza che le ore lavorate si riferiscono a occupazioni scarsamente qualificate a basso valore aggiunto e che gli investimenti in beni strumentali o immateriali non sono stati usati efficacemente.

Ancora, secondo il Centro Studi "Oxford Economics", l’Italia tornerebbe ad avere il reddito che aveva ai livelli precrisi prima del 2008 soltanto nel 2035. Ricordo che l'Italia era l'unico paese delle UE a non aver ancora recuperato nel 2019 (prima del Covid-19, dunque) il PIL antecedente alla crisi del 2008.

Questo nell'illusione che non ci sia più una nuova crisi fino ad allora, ipotesi ovviamente irrealistica. Tanto è vero che se consideriamo il tasso di crescita medio del nostro Pil dal 1999 al 2019 (quindi escludendo il terribile 2020), pari a un "incremento" (!!) trimestrale dello 0,11%, - già falcidiato dalle pesanti recessioni del 2008 e del 2011 (che confronto a questa sembrano una passeggiata) – l’Italia tornerebbe ad avere quel reddito nel 2040, a voler essere ottimisti, perché nel 2020 il crollo è stato verticale!

Credo che sia molto chiaro a tutti cosa voglia dire aspettare fino al 2040 per tornare ad avere il reddito del 2008: che almeno ad un paio di generazioni saranno fortemente limitate opportunità e prospettive.

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 Lo scenario imprenditoriale italiano

Sembra che finora tutti i richiami al cambiamento, all'evoluzione, alla riorganizzazione, alla digitalizzazione per la ripartenza su basi nuove, siano caduti nel vuoto.

Nonostante i dati disastrosi che lasciano presagire un futuro perlomeno molto complicato, le aziende perseverano nella ostinata difesa delle loro logiche, convinzioni, inefficienze. Si affannano quindi a ridurre i costi e recuperare i fatturati persi, concentrandosi sul presente, senza porsi domande su come saranno gli scenari, il mercato, la concorrenza, le relazioni, le aspettative e di come la propria azienda dovrebbe attrezzarsi per affrontare la c.d. "Nuova normalità".

Il cambiamento non solo è necessario, è senza dubbio vitale. Al contrario i concetti di cambiamento, innovazione, evoluzione, trasformazione, transizione nella migliore delle ipotesi lasciano le imprese indifferenti quando non addirittura infastidite. Il quadro appare alquanto sconfortante!

Le PMI italiane inoltre sono generalmente caratterizzate da produzioni nel settore B2B, per lo più in sub-fornitura, a basso valore aggiunto e di conseguenza a bassa produttività.

Le aziende devono quindi affrancarsi da modelli di business ormai datati e superati dai sistemi industriali delle nazioni più dinamiche e reattive, ma stanno mostrando una scarsa reattività agli stimoli, che pure sono molto evidenti.

Il rapporto tra “valore aggiunto” e “costo del personale” nelle PMI, che sono l'asse portante dell'economia italiana, è mediamente molto basso (tra 1,4 e 1,5), con a conseguenza che i costi di produzione elevati erodono costantemente i margini di profitto al punto che molte sono incoraggiate a portare il lavoro fuori dall’Italia. Nella piccola impresa si è prigionieri di un infernale circolo vizioso: il fatturato è così basso e i margini sono così esigui, anche a causa degli elevati oneri finanziari derivanti dall'alta incidenza di capitali di terzi (finanziamenti bancari e sottocapitalizzazione) che non ci si può permettere un struttura manageriale e tanto meno di assumere un amministratore esterno alla cerchia familiare, in grado di riorganizzare l’impresa verso un nuovo assetto più adeguato alla competizione interna ed internazionale. Insomma, le PMI non generano le risorse per retribuire i manager migliori.

Per di più in Italia abbiamo pochi manager in assoluto e pochi manager giovani rispetto ai principali paesi avanzati e nostri competitor. Basti pensare che i manager pubblici e privati sono in Italia l’1,3% dei lavoratori dipendenti, contro una presenza media europea (UE 28) del 4,9% e del 2,5% in Spagna, del 3,7% in Germania, del 6,7% in Francia e del 10,3% in UK.

Abbiamo meno dirigenti in assoluto perché le aziende familiari che in Europa hanno più o meno lo stesso peso (80% delle aziende) da noi hanno manager esterni alla famiglia dell’imprenditore solo nel 33% dei casi, mentre li hanno nell’80% dei casi circa in Europa: 64% Spagna, 72% Germania, 74,2% Francia e 89,6% UK.

Secondo il noto economista Luigi Zingales «Il processo di selezione dei talenti nelle Pmi è così scadente che nel Bel Paese molte persone, soprattutto donne e dotate di tutte le capacità per essere manager, sono confinate al ruolo di segretaria. Mentre i posti dirigenziali sono a affidati a chi è ben introdotto, anche se spesso incapace. Per questo in Italia ci sono le migliori segretarie e i peggiori manager» e aggiungerei i dirigenti e funzionari pubblici.

Abbiamo poi pochi dirigenti giovani e meno dei competitor esteri a causa di un’economia ancora troppo fondata su aziende a gestione familiare. Ma anche perché abbiamo meno aziende innovative e nei settori a elevata tecnologia, dove servono manager giovani e preparati, con competenze elevate in campo tecnologico e digitale, senza i quali non si può competere sui mercati globali.

In Italia il 65% delle imprese con fatturato superiore ai 20 milioni di euro è costituito da aziende familiari. Il passaggio del testimone dei fondatori agli eredi è previsto solo nel 20% dei casi (dato che corrisponde alla percentuale di ultrasettantenni ancora alla guida) entro i prossimi 5 anni, ma non è detto che siano disponibili a farsi da parte e delegare. Altro dato interessante: solo il 30% delle aziende sopravvive al proprio fondatore e solo il 13% arriva alla terza generazione. Con il Covid, questo dato sulla premorienza è destinato ad aggravarsi, basti pensare alla prossima chiusura dei bilanci del 2020 e a quante imprese si troveranno con capitale negativo.

Gli imprenditori appaiono in sostanza prigionieri dei loro modelli di business autoreferenziali, accentranti e ormai obsoleti per i tempi che li attendono, e sono concentrati ancora di più sul mantenimento e la preservazione della loro idea di azienda di produzione.

La nostra classe imprenditoriale, di converso, è da sempre abituata a sopravvivere in un contesto economico, tributario e infrastrutturale inutilmente complesso, farraginoso, iper-regolato, talvolta vessatorio (quando non ostile) puntando sulle proprie doti di determinazione, operosità, intuizione, inventiva, decisionismo. Ma da ora in poi queste capacità non sono più sufficienti e per molti versi addirittura controproducenti, perché limitano la ricerca di nuove strade e nuove idee.

Attenzione alla falsa sicurezza generata dalla convinzione di essere i più attrezzati al mondo nel gestire le situazioni caotiche, perché ci confrontiamo quasi quotidianamente con le complicazioni.

Questo grazie alla nostra peculiare attitudine di andare direttamente al "come" – saltando spesso la ricerca delle cause – rimandando a dopo il "perché". Siamo soprattutto bravi "Problem solver", troviamo sempre una soluzione ma molto spesso senza un'adeguata analisi.

Ciò ci differenzia da altre popolazioni, in particolare germaniche, che invece privilegiano l'analisi sul "cosa" (il fenomeno e le cause) e poi si focalizzano sul "quando" (timing) e "in che modo" (procedure).

Ma in questo particolare momento storico, tale prerogativa italica non è da sola sufficiente ad indicare agli imprenditori e manager le soluzioni più adatte, perché sono venuti a mancare i riferimenti, le esperienze, le certezze (ancoraggi) e le prospettive.

Se a tutto ciò aggiungiamo anche una inevitabile smarrimento e calo di lucidità, il rischio di decisioni errate e di atteggiamenti di autoprotezione limitanti diventa molto elevato.

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 V, U, L , K : la curva dell'economia nel dopo-pandemia che andamento avrà?

Dobbiamo prepararci fin d'ora ad affrontare un lungo periodo di recessione. Non ci siamo ancora ripresi completamente dalla grave crisi del 2008 2011 e ne dovremo affrontare subito un'altra ancora più problematica: occorreranno certamente nuovi approcci, nuovi strumenti e nuove competenze, ma soprattutto una forte spinta soggettiva al rinnovamento.

Dato per assodato che purtroppo l'andamento della recessione non sarà a "V" e non dovrà essere assolutamente a "L" (= depressione) il solo schema auspicabile è quello ad "U". il quesito da risolvere sta nella durata cioè la permanenza nel livello più basso della "U" che corrisponde alla stagnazione. Il rischio che recentemente alcuni economisti hanno previsto è rappresentato una curva a forma di "K", cioè sta emergendo una divaricazione di andamento economico tra settori che riusciranno ad invertire il trend negativo e risalire ed altri che continueranno il declino fino all'uscita dal mercato.

Chi scrive propende per un modello misto UK, con una saccatura della U molto profonda e pronunciata, ed una separazione di evoluzione tra chi riuscirà a risalire e chi non ne avrà la forza.

Sta al mondo imprenditoriale fare in modo che la recessione non si trasformi in depressione.

Per accorciare questo periodo di andamento negativo saranno indispensabili decise, estese, convinte iniziative mirate non solo alla ripartenza ma soprattutto all'innovazione. Per approfondire questa tematica rimando al mio White Paper gratuito da richiedere alla mail andrea.donato@deevo.org.

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Come sarà il "Nuovo Mondo"?

La pandemia di coronavirus sarà ricordata come un evento di riordino mondiale. Come la Grande Depressione, la caduta del Muro di Berlino e la crisi finanziaria globale del 2008, accelererà i cambiamenti sociali ed economici che altrimenti avrebbero impiegato anni per materializzarsi.

L'aspettativa romantica di un futuro utopistico basato su un nuovo modello di società e di relazioni umane, si infrangerà probabilmente contro una realtà distopica; la competizione esasperata, la scarsità di risorse economiche - come lavoro, liquidità, fiducia, mercato, risorse finanziarie, competenze -, e l'acuirsi di tensioni sociali, politiche, ambientali, produttive ne saranno la causa primaria.

Il nuovo scenario sarà caratterizzato da una amplificazione dei divari già esistenti prima della pandemia, a livello sociale, economico, politico, tecnologico. Le aziende si troveranno a operare in un nuovo ambiente caratterizzato dal fatto di essere mutevole, ambiguo, volatile e iniquo

Sarà un mondo dominato da una estrema incertezza con un rischio reale di passare dalla pandemia alla carestia per fasce molto consistenti di popolazione e in molte aree del pianeta, non necessariamente arretrate. La c.d. New normality sarà caratterizzata da persistenti variabilità e volatilità e da scarsità di risorse, fattori e relazioni, quali: liquidità, fiducia, mercato, ordini, risorse finanziarie, competenze, tempo, partnership.

L'ambiente socio-economico e lo scenario che vivremo nei prossimi mesi/anni sarà ben differente dal sentimentalismo patriottico imperante durante il confinamento. Dovremo invece confrontarci duramente con un nuovo sistema sociale ed economico caratterizzato da competizione aggressiva, scarsa fiducia tra le filiere, mancanza di solidarietà, imprevedibilità di comportamenti, egoismo eletto a regola.

Gli americani lo hanno da tempo battezzato Ambiente MEVVA, cioè Minaccioso, Egoistico, Variabile, Volatile, Ambiguo.

Per quanto tempo ci vorrà, alla fine respingeremo questo virus e le nostre economie alla fine si riprenderanno dalla recessione dolorosa che ha provocato. Ma quando potremo uscire definitivamente dall'incubo, la pandemia avrà rimodellato in modo permanente il nostro comportamento sociale ed economico.

La velocità di reazione-azione sarà un fattore competitivo determinante: solo chi interpreterà le dinamiche prima e meglio dei suoi concorrenti potrà disporre di più opzioni e migliori chances di superare le difficoltà in minor tempo, cogliendo tempestivamente le nuove opportunità appena si presenteranno. Risulta così fondamentale utilizzare questo periodo di transizione per delineare meglio il probabile nuovo sistema di riferimento.

Sono da considerare assolutamente naturali e comprensibili il bisogno, la voglia, l'urgenza, l'impeto degli imprenditori nel riprendere in mano i destini della propria azienda per mitigare gli effetti perniciosi della chiusura forzata, recuperare le perdite, salvare i posti di lavoro, riattivare il mercato, provare a superare rapidamente la crisi.

Ma ogni azione deve essere ponderata e coerente con tali obiettivi. La fretta e l'impellenza sono di solito pessime consigliere: "Prima di far andare le mani, è meglio far funzionare la mente!"

Per quanto tempo ci vorrà, alla fine respingeremo questo virus e le nostre economie alla fine si riprenderanno dalla recessione dolorosa che ha provocato. Ma quando potremo uscire definitivamente dall'incubo, la pandemia avrà rimodellato in modo permanente il nostro comportamento sociale ed economico.

La Morale e l'Etica non saranno i nuovi fondamenti per ridisegnare una nuova società solidale, collaborativa, umanitaria, inclusiva, aperta; cessata l'emergenza prevarranno, in misura accresciuta, i comportamenti meno "nobili" dell'Umanità;

Bisogna augurarsi che le PMI si sveglino presto dal letargo delle idee, per il bene loro e del Paese: il cambiamento non solo è necessario, ma sopra ogni ragionevole dubbio, sicuramente vitale!

 Nulla sarà più come lo conoscevamo

Lo ripetono tutti, ma che valenza dare a questa affermazione ambivalente (e ambigua)?

Si può leggere in chiave di speranza per un nuovo ordine mondiale, come pure come un futuro minaccioso che incombe. Senza dubbio, questa pandemia avrà almeno un effetto positivo perché agirà come un forte acceleratore di cambiamento e un'occasione per rimettere in discussione tanti capisaldi dell'attuale ordine sociale, economico e politico.

Questa crisi ha le caratteristiche infatti di un trauma globale che sta già modificando in modo sostanziale comportamenti, prassi, modalità, abitudini, regole e soprattutto relazioni.

Le pandemie esistono da sempre, ma la nostra società globalizzata e tecnocratica si è fatta cogliere impreparata e inadeguata. Di conseguenza è già cambiata la percezione del sistema in cui siamo inseriti e ciò modifica anche le convinzioni ed aspettative dei cittadini.

Il solo pensare quindi di affrontare un periodo di grande instabilità, incertezza, difficoltà, complessità, rifugiandosi nel rassicurante perimetro delle certezze abitudinarie, consolidate in anni di attività, sarà fonte di nuove criticità in azienda ed impedirebbe di cogliere invece una grande opportunità di cambiamento.

Anche lo stile di management dovrà modificarsi e adeguarsi, per sempre più essere 3P, cioè impegnato nella ricerca di equilibrio e nuove soluzioni tra Profit, People, Planet in chiave di sostenibilità e di responsabilità sociale. Altro passaggio di non facile attuazione qui da noi.

Che ci piaccia o no, il mondo intorno a noi è già cambiato e sta accelerando il passo: oggi, “piccolo è brutto”. In passato, “piccolo era bello”: tante piccole imprese appartenenti ai vari distretti industriali – riuscivano a superare i problemi strutturali del nostro Paese grazie alla loro flessibilità, e spingevano la crescita. Con la “crisi dei sette anni” – dal 2009 al 2016 – e il relativo crollo della domanda interna – il sistema si è bloccato.

Si sono salvate solo le imprese con una forte vocazione all'innovazione e all’internazionalizzazione, che richiedono:

1)   una strategia e una struttura organizzativa chiare;

2)   la capacità di gestire processi complessi per operare su più mercati; e

3)   l’adozione continua di nuove tecnologie, inclusa la generazione e l’uso di dati.

Quante PMI sono attrezzate per tutto ciò?

Dopo la pubblicazione dell’ultimo Rapporto Censis, ci si chiede come possa un piccolo imprenditore andare avanti, lavorando giorno e notte, in uno scenario sempre più pessimistico, con una popolazione disorientata, sfiduciata, depresso, richiusa in sé stessa e incapace di alzare lo sguardo oltre il quotidiano vivere.

Prepariamoci quindi ad affrontare un lungo periodo di recessione; non ci siamo ancora completamente ripresi dalla grave crisi del 2008 e ne stiamo affrontando un'altra ancora più problematica, che richiederà certamente nuovi approcci, strumenti, visioni, regole e competenze.

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 Ne saremo capaci, una volta attenuata la grande paura?

La situazione nella quale ci troviamo a causa del Covid-19 ha messo in evidenza quanto siamo esposti e vulnerabili ai rischi di impatti negativi sul business e l'economia in generale.

Ad oggi la priorità è innanzitutto quella di uscire dall’emergenza, sopravvivere e superare questa impegnativa e drammatica prova, con l'obiettivo di riprendere l’attività:

  1. mettendo in campo azioni volte alla riduzione dei costi, l'eliminazione di sprechi e inefficienze, l'individuazione delle modalità operative più adeguate e sostenibili,
  2. adottando nuovi modelli, tecnologie e strumenti,
  3. ricercando nuove opportunità per rilanciare la propria impresa.

Solo poche fortunate aziende potranno semplicemente continuare a produrre esattamente come prima dello shutdown. Per la maggior parte delle aziende italiane il percorso sarà più articolato, complesso, impegnativo, esteso che porterà a trasformazioni necessarie e profonde che oggi siamo solo in grado di ipotizzare.

Sarebbe quindi poco lungimirante – e molto incauto – concentrarsi sulle iniziative a breve senza considerare interventi che rendano la propria struttura aziendale più resiliente in caso di future situazioni di crisi, e soprattutto più competitiva.

Dopo un terremoto devastante, le case rimaste danneggiate non possono essere ricostruite rimettendo semplicemente insieme i pezzi, ma dovranno essere riprogettate applicando le ultime tecniche antisismiche.

Ma questa crisi può essere anche considerata un'inaspettata occasione - assolutamente da non sprecare - per rilanciare finalmente anche il nostro Paese. Ma attenzione: ogni effetto futuro del post-pandemia sarà la risultante di processi che traggono la loro origine dal pre-pandemia, ci trascineremo cioè tutte le criticità già presenti nel nostro sistema ma molto più amplificati dal crollo di tutte le nostre sicurezze precedenti.

La grinta, la caparbietà, la determinazione, l'energia, la diffidenza uniti alla concretezza - quell’essere “tough” (tosti, tignosi) come direbbero gli inglesi- sono i principali tratti caratteriali dell'imprenditorialità delle PMI, ma rischiano di diventare un limite alla ricerca di nuove soluzioni. Essere caparbi quindi non deve necessariamente comportare di essere anche spavaldi, temerari, autoreferenziali, oppure sdegnosi verso il cambiamento e l'innovazione.

Le nuove caratteristiche personali che si renderanno necessarie sono resilienza, flessibilità, capacità di adattamento costante. E poi saper fare ricorso alla collaborazione oltre ogni remora e in qualsiasi situazione.

In un Ecosistema in rapido mutamento, caratterizzato da estrema variabilità e volatilità dei fattori, l'unica certezza è che non avremo più alcuna certezza cui aggrapparsi,

Non possiamo quindi più permetterci una posizione solo difensiva in retroguardia in risposta alla crisi pandemica, ma è necessario piuttosto pensare a come reagire e come evolvere, perché la Zoologia e la Paleontologia ci insegnano che non è la specie più forte, numerosa o potente a sopravvivere, ma quella più veloce ed intelligente che si sa meglio adattare ai cambiamenti.

E infine, un'avvertenza determinante per le sorti future delle aziende: questa volta è meglio non fare troppo affidamento sull'atavica capacità italica di aggirare o evitare gli ostacoli di percorso grazie all'ingegnosità, l'adattabilità e anche alla spregiudicatezza di fronte al problema.

Non si tratta stavolta di trovare accomodamenti, stratagemmi o escamotage perché di fronte non ci sarà una barriera aggirabile ma un'alta Muraglia Cinese, superabile solo se si comincia a costruire una scala, gradino per gradino, partendo da lontano.

"Un viaggio di mille miglia deve cominciare con un solo passo"

(Lao Tzu – Filosofo, VI° secolo a.C.)

 Autore: Andrea Donato - 8 febbraio 2021

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