COMPRE FED VENDI BCE
La decisione sofferta sull’aumento dei Fed Funds, attesa, nonché temuta per molti aspetti, ha liberato il mercato dal complesso inibitorio della policy monetaria della FED. Probabilmente i membri del Fomc nel loro intimo avrebbero preferito soprassedere ancora una volta su questa decisione, ma le pressioni e le attese erano tali da far loro temere il peggio nel caso in cui non si fossero pronunciati. Benché il consenso accreditava almeno l’80% delle probabilità verso la manovra, gli investitori avevano, nei giorni che l’hanno preceduta, preferito vendere le borse e posizionarsi in una situazione difensiva, tanta era la tensione ed il timore legato ad un rinvio.
La questione relativa ad un eventuale rinvio corrispondeva all’ammissione implicita che lo stato della crescita negli U.S. non fosse ancora maturo per assorbire un cambiamento della politica monetaria. Tant’è che la signora Yellen si è preoccupata fino allo sfinimento di ammettere che il rialzo rientra in una strategia di politica sempre accomodante.
Ma cosa significa per l’economia reale questo rialzo? In particolare dal punto di vista di un operatore dell’Eurozona?
Il passaggio che le due banche centrali, Bce e Fed, hanno incrociato in queste ultime settimane di dicembre è estremamente significativo, benché le decisioni prese siano meno energiche di quanto fosse utile per noi europei. Se condividiamo la logica secondo cui una grande spinta alla crescita possa giungere quasi esclusivamente dall’export, vista la debolezza della domanda interna a causa delle restrizioni fiscali ancora strutturali, la forza del dollaro costituisce un fattore chiave. Lo dimostra il rallentamento dell’export che si è registrato dopo la reazione che il cambio ha manifestato durante l’estate con il ritorno dei valori tra 1.10/1.15 eur usd. Per raffreddare questa reazione ci si attendeva da parte della BCE una misura sul fronte del QE più robusta. Benché la Germania abbia anch’essa necessità di mantenere elevato lo standard delle esportazioni, ha posto un limite alle decisioni di Mario Draghi, per tramite della Bundesbank. Poco male, in questo modo la banca centrale europea mette a riserva parte delle opzioni altrimenti spese tout court. Di converso, la Fed rispetto allo statement di ieri sera, avrebbe potuto agire prima per dare un segnale convinto sulla volontà di avviare una vera exit strategy. L’opportunismo della retorica ha invece intrapreso un percorso più pacato, ciò nonostante non meno fruttifero. In altri termini le linee di policy monetaria confermano, pur nella natura della loro -timidezza-, una carattere di assoluta divergenza, riservandosi nel contempo altre cartucce nell’implementazione futura.
Il cambio euro dollaro, che dopo la BCE aveva nuovamente reagito ai minimi dell’anno 1.05, può tornare a consolidare il range di attuale dominio 1.05-1.10, senza attivare pericolosi segnali tecnici che diversamente avrebbero messo a rischio gli obbiettivi di questa relazione. Il doppio minimo che si è formato proprio in area 1,05 necessitava di essere disinnescato e questo hanno cercato di fare le due banche centrali. Per un risultato più accurato dovranno lavorare ancora sulla retorica: probabilmente la BCE continuerà nel futuro a ribadire di essere pronta a prendere ulteriori misure di stimolo monetario, la Fed di essere fiduciosa sullo stato della crescita americana. L’euro potrà così abbandonare l’attuale banda di oscillazione ed impegnarsi a scendere gradualmente verso la parità. Il primo passo è costituito da un contestuale contenimento di eventuali residue spinte sotto 1.10 ed un successivo ritorno fermo dei prezzi sotto 1.08. Il resto sarà implementato dal mercato quando riprenderà, probabilmente presto, a ricostruire le posizioni lunghe di dollari recentemente chiuse.
Nel lungo periodo, 12/18 mesi, come abbiamo già anticipato lo scorso anno nella nostra ricerca, il mercato verificherà latitudini di prezzo che abbiamo avuto modo di sperimentare ormai quindici anni fa, all’indomani della partenza dell’euro. Nel 2002 inizi 2003 il cambio fissò valutazioni minime tra 0.85/0,80. Ciò significa che la price discovery non ha ancora trovato il fair value, viste e considerate le diverse velocità in cui gira il motore della crescita in Europa rispetto all’America. La prima riporta la disoccupazione al livello più che doppio rispetto alla seconda, come pure inflazione e crescita del PIL tendenziali.
E’ probabile che la zona di equilibrio sia prossima alla parità con un range tra 1.05/0.95, ma come la storia insegna i mercati tendono all’equilibrio, tuttavia eccedono nell’estremizzare le tendenze. In questa logica la cronaca annovera un numero enorme di esempi: crolli delle borse apparentemente senza fondo, scenari Armageddon, petrolio che per incanto non serve più a nessuno, salvo scoprire il giorno dopo, come appare ora, gli eccessi di certe negatività. Anche nel caso dell’eur usd potremmo rivivere una stagione di eccessi e quindi andare oltre il normale equilibrio, questa volta utili agli interessi comuni, ovvero alla ripresa del nostro sofferto PIL.