Credere nei propri sogni e sognarli


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Premessa

Ho postato su facebook (pagina dedicata alla divulgazione di tematiche legate alla psicologia) e su instagram (instapsicogram: profilo dedicato ad immagini legate a tematiche psicologiche) l’immagine esposta qui sopra. Sia la pagina facebook, sia la pagina di instagram, sono state aperte da poco tempo e ci sono poche persone che le seguono, ma tra queste ho visto che ad alcune è piaciuta l’immagine con ciò che ho scritto (sia nell’immagine, sia nel commento del post). L’immagine mi sembra carina, ma penso che anche ciò che ho scritto abbia evocato, o “toccato”, qualcosa in chi l’ha visualizzata e letta. Ho pensato, e mi piace pensare, che possa essere stato ciò che ho scritto: <<non smettere mai di cercare la tua isola che non c’è>>. Sono arrivato a scrivere tale frase in quell’immagine perché, mentre seguivo in tv una trasmissione dedicata ad Edoardo Bennato, una persona intervistata ha detto che la canzone “L’isola che non c’è” aveva rappresentato, per quei giovani che stavano vivendo privazioni materiali, di opportunità e sogni, un posto magico dove i sogni potevano non morire e diventare veri. La persona intervistata mi ha emozionato anche perché è un giornalista che stimo molto per professionalità ed umanità, come anche mi piace la canzone e l’arte di Bennato. A parte ciò, ho pensato che anche ora abbiamo bisogno di credere in “L’isola che non c’è”, di credere nei propri sogni, e come commento all’immagine postata nei social ho scritto: <<Vi auguro di non smettere mai di cercarla e intanto di sognarla, ad occhi aperti e ad occhi chiusi, con la mente, di trovarla in voi stessi e/o nello sguardo di qualcuno che vi guarda, ovunque dove voi vogliate e non vi aspettate. Come fare? Iniziate da qui: “seconda stella a destra

questo è il cammino

e poi dritto, fino al mattino, poi la strada la trovi da te…” (Edoardo Bennato).

Tutto ciò mi ha ispirato l’articolo che segue.

Credere nei propri sogni e sognarli.

Credere nei propri sogni è una capacità molto complessa, richiede la determinazione e la costanza di saperli proteggere e nutrire perché per realizzarli dobbiamo trovare le “vie” per poterli esprimere. Il nostro “sogno” è come se fosse il nostro bambino da amare, proteggere, fornirgli cure sintonizzandoci con lui, ma al tempo stesso lasciargli una progressiva possibilità di esplorare e conoscere l’ambiente e le persone, facendogli sentire che può avere la sua base sicura dove tornare, cioè noi.

A volte i sogni sembrano meno chiari, più nebulosi, quando sono così ci sentiamo un po’ sconfortati e ci dispiace perché fino a ieri erano vividi. Possono essere tante le varianti di sentimenti ed emozioni che influiscono sui nostri sogni da realizzare, e questi sogni, a volte, possono prendere strade inaspettate.

Quando il nostro sogno si nasconde in un sintomo.

A volte il nostro sogno può nascondersi in un sintomo e guardando il sintomo mai ci potrebbe venire in mente che lì ci sia un sogno. Se nel sintomo c’è un sogno, volendo eliminare il sintomo perderemo la possibilità di accedere al sogno che nasconde, quindi non troveremo la nostra “isola che non c’è”. Ovviamente, non è un invito a tenersi i propri sintomi, ma è un invito ad imparare a “leggerli” e a farne buon uso per fare sparire il sintomo e scoprire il sogno. “L’isola che non c’è”, nome che ho dato all’immagine inserita nell’articolo, è già dentro di noi, anche quando la dovessimo trovare nello sguardo di un’altra persona che ci guarda negli occhi.

La nostra “isola che non c’è”: l’inconscio generativo.

Nel momento in cui una persona osserva l’immagine che ho inserito nell’articolo può pensare alla propria “isola che non c’è” e mentre lo fa, produce, volontariamente e involontariamente, altre immagini e pensieri. Questo perché i pensieri e le immagini che possono venire alla mente possono essere molteplici, ma solo alcuni di essi potranno essere catturati in un breve lasso di tempo. Se ad esempio, ci trovassimo a parlare, in una seduta di psicoterapia, dei pensieri (che a loro volta comprendono altre immagini) e delle emozioni che ci ha sollecitato l’immagine in questione, ci accorgeremo che il parlare di ciò produrrebbe altri pensieri ed immagini e ci stupiremo di non averli pensati, “visualizzati”, nel momento in cui abbiamo visto l’immagine la prima volta. Mentre siamo impegnati, con il terapeuta, a fare questo tipo di lavoro, “semplicemente” parlando con lui, è come se stessimo rendendo inconscio ciò che era conscio. A questo punto, qualche lettore, potrebbe sentirsi spiazzato da quanto sto scrivendo, in effetti è un cambiamento di paradigma: non si tratta di rendere conscio ciò che è inconscio ma rendere inconscio ciò che è conscio (la psicoterapia permette entrambe i due tipi di processi, uno non esclude l’altro e ciò nutre la mente). Le prime sensazioni, le prime immagini e i primi pensieri fatti, osservando l’immagine la prima volta, sono stati tanti e pur non visualizzandoli tutti erano consci ma, magari non hanno avuto la possibilità di essere simbolizzati.

Semplificando, posso dire che simbolizziamo quando permettiamo alla nostra psiche di produrre immagini, pensieri e senso su un qualcosa che fa parte della nostra esperienza, della nostra vita psichica, psico-corporea e relazionale. E’ possibile simbolizzare anche attraverso il parlare con uno psicoterapeuta, che è in grado di favorire tale processo, in un lavoro che sia costante e continuativo nel tempo. Quando questa capacità della psiche si indebolisce l’individuo si attacca e si fissa a cose esterne e materiali (oggetti, aspirazioni concrete che sono diverse dai sogni a cui mi sono riferito sino ad ora), a “cose” che possono essere più interne (pensieri fissi, ruminazioni, sentire una gamma ristretta di emozioni spesso uguali e della stessa tonalità), a persone che magari possono non condividere e corrispondere un sentimento. L’indebolimento, o l’assenza di tale funzione e capacità della psiche può contribuire, insieme ad altri fattori, anche a sviluppare forme di dipendenza o altri comportamenti disfunzionali.

Perdere la capacità di simbolizzare la nostra vita, di sognarla, significa non avere la possibilità di fare un lavoro inconscio con la nostra esperienza. Arrivare a fare degli incubi, anche ripetitivi, è un indicatore chiaro dell’indebolimento della capacità di “sognare i nostri sogni”, sino ad arrivare a credere che “L’isola che non c’è”, non c’è e basta. Nessun sogno da realizzare, nessun “sogno da sognare” tanto da non provare un sentimento pieno di vita.

Sto scrivendo in un modo che possa sollecitare un pensiero che produca immagini e non solo concetti che producano contenuti lineari, coerenti e causali.

Sogna e sogni come “Mine Vaganti” che non fanno male.

Mentre scrivo mi è venuto in mente anche un esempio di come a volte “L’isola che non c’è”, c’è e non c’è allo stesso tempo, e a volte può essere una anche se non sempre la stessa, mentre si avvia un processo di produzioni di immagini e pensieri accompagnati da produzione di senso e significato continui. Mi è venuto in mente il personaggio protagonista del film “Mine Vaganti”. Il protagonista è un ragazzo, Tommaso, vive a Roma ma è di Lecce, a Roma si è costruito una sua indipendenza e ha una relazione di amore con il suo compagno. Arriva il momento di tornare a Lecce, dalla sua famiglia, Tommaso vorrebbe tornarci solo per un breve periodo di tempo, perché, sintetizzando, Tommaso crede che la sua “isola che non c’è” sia a Roma e sia fatta della vita con il suo compagno, dell’amore che prova per lui, dei suoi studi, del suo lavoro e dei suoi amici. C’è un problema, anzi più di uno: il padre vorrebbe che Tommaso rimanesse a Lecce per occuparsi dell’impresa di famiglia (un pastificio) insieme al fratello di Tommaso, Antonio; Tommaso non ha detto di essere omosessuale alla sua famiglia e sa’ che questa, soprattutto il padre, non comprenderà e non accetterà il suo essere omosessuale ma, nonostante ciò, Tommaso è intenzionato a farglielo sapere chiarendo che vuole continuare a vivere a Roma e non si vuole occupare del pastificio; quando Tommaso torna a Lecce, il fratello Antonio, durante una cena con la famiglia e con persone invitate da quest’ultima, fa sapere a tutti di essere omosessuale, creando il silenzio in sala, fino a quando il padre caccia da casa il figlio Antonio. Ci sono anche altre situazioni e personaggi che per ragioni di sintesi non posso elencare, voglio solo aggiungere la nonna di Tommaso che, spesso, ripensa al suo amore non vissuto e “abortito”, amore al quale ha rinunciato e che ha portato via con sé la possibilità di “sognare” la propria vita.

Questa è la situazione che incontra Tommaso quando torna a Lecce, per forza di cose è costretto a rimandare il suo proposito di affermare la sua identità e i suoi desideri in famiglia. Il suo pensiero costante è trovare il momento giusto per farlo, perché crede di sapere qual è la sua “isola che non c’è”: affermarsi, costi quel che costi, tornare a Roma, dove può scrivere il suo romanzo e dove il suo amore lo aspetta.

Ci sono diverse scene e tappe nel film che mostrano come Tommaso stia trasformando il suo pensiero simbolizzando ciò che gli accade. Alla famiglia non farà sapere di essere omosessuale. Comunicherà il desiderio di scrivere, anche nel caso in cui nessun editore gli pubblichi un romanzo.

Quando Tommaso dice alla sua famiglia che vorrebbe parlare con loro, c’è un attimo di gelo, probabilmente si aspettano e temono una comunicazione simile a quella del fratello, e invece Tommaso dice loro che ha provato a lavorare nell’impresa di famiglia, nel pastificio, ma non prova nulla. Ha provato a seguire i loro consigli, ma non si sente vivo vivendo quella vita. Chiede loro se sanno cosa lui fa la notte, quando loro dormono, silenzio, e poi dice loro che lui scrive. Tommaso dice: <<Di notte, mentre voi dormite, qui dentro, sapete cosa faccio? Scrivo! Scrivo le cose che vedo, quelle che penso, quelle che voglio dire. Diventano vere, riesco a dire quello che penso, come io, a voce, nella vita non riesco a fare […]>>. Così Tommaso ha simbolizzato la propria esperienza e ha trovato “L’isola che non c’è” di quel particolare momento della sua vita. Tornando ai “sogni non sognati” (espressione coniata da Thomas Ogden, psicoanalista), possiamo dire che attraverso la sua scrittura Tommaso sogna i propri sogni e colora di senso, ed emozioni, la propria vita. Ricorrendo ad un artificio, commento e sostituisco, nel discorso di Tommaso, la parola “scrivo” con la parola “sogno” e così sarà più chiaro ciò che ho cercato di trasmettere con questo articolo: <<Di notte, mentre voi dormite, qui dentro (dentro casa diventa dentro di me), sapete cosa faccio? Sogno! Sogno le cose che vedo (immagini), quelle che penso (pensieri da trasformare), quelle che voglio dire (e sentire che sono vere per me, autentiche). Diventano vere, riesco a dire quello che penso, come io, a voce, nella vita non riesco a fare […]>>.

Segue il video della scena che ho descritto sopra, dopo la scena l’articolo continua:


“L’isola che non c’è” in psicoterapia.

La psicoterapia permette di vivere ciò che Tommaso è riuscito a vivere grazie alla scrittura. Tornando a “L’isola che non c’è” possiamo dire, a questo punto, che è più uno stato dell’essere, che Tommaso vive attraverso la scrittura, che una meta a cui arrivare. “L’isola che non c’è” non è tanto lo scrivere, quanto ciò che lo scrivere gli permette di sentire e provare. Tutto ciò che riesce a sentire era già dentro di sé (è sempre stato con lui), ma non riusciva a “visualizzarlo” perché non lo riusciva a scrivere, scrivere che per lui è come “sognare” (trasformare la propria esperienza per provare un sentimento di vita pieno).

La psicoterapia non introduce nulla che già non sia presente e che c’è anche quando non si “vede”, anche se non sempre lo si “sogna”.

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Angela Barlotti

Psicologa Psicoterapeuta presso Centro Psike

5 anni

Proprio un articilo interrssante Antonio, mi è piaciuto molto leggerlo.

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