ESSERE AVVOCATO

di Massimo Romolotti

 Che cosa intendo per “essere avvocato”?

Cerco di dare una risposta, riportandomi a vari passi dell’opera giovanile di Piero Calamandrei intitolata “Troppi Avvocati edito nel 1921 dalla società “La Voce” nelle serie “i Quaderni. E’ davvero illuminante, come quasi 100 anni fa, Piero Calamandrei anticipasse i tempi, in modo lungimirante, tanto da essere, nelle sue analisi critiche sull’avvocatura dell’epoca, del tutto attuale. Si sostiene che la Storia si ripeta.

Indro #Montanelli affermava “Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente.” George Santayana, annoverato tra i più grandi filosofi americani del Novecento, sosteneva che “coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo” rifacendosi al conflitto mondiale.

Ma torniamo a Calamandrei. L’avvocatura è sorta “..in servizio dell’interesse privato…” Infatti il processo era stato concepito come “un duello legalizzato tra due interessi individuali, in mezzo ai quali lo Stato si assideva spettatore passivo, quale in un torneo il giudice di campo incaricato soltanto di far rispettare le regole del giuoco, i legali dei due avversari intervenivano in lizza come soldati di ventura pronti a vendere al miglior offerente le armi della loro esperienza tecnica e della loro scaltrezza” Come nella tenzone vera vinceva il più forte…” in quella simulata “il processo” “…..vinceva il più astuto e il più furbo….”

Questo stato di cose ha fatto si che l’avvocato si trasformasse nel noto “#azzeccagarbugli”.

Solo quando lo Stato costituzionale, rivendica a sé stesso la “funzione #giurisdizionale come completamento indispensabile di quella legislativa, si comincia a sentire che neppure all’esito del processo rimane estraneo l’interesse pubblico” Quindi Calamandrei sostiene che in “ogni #processo si trova in giuoco l’applicazione della legge”, nel senso che nel processo si ottiene “…il rispetto della volontà dello #Stato” che rappresenta tutti i cittadini. Non solo nel processo penale dove sussiste il “#diritto soggettivo di #punire spettante allo Stato, ma anche nel processo civile, nel quale l’interesse individuale dei litiganti appare sempre più lo strumento inconscio dell’interesse pubblico”. L’utilizzo del sostantivo “#inconscio” evidenzia la trasformazione del concetto di #funzione dell’avvocato da privata a sociale che #Calamandrei torna ad evidenziare e a rivendicare. Ma non basta. Portiamo le lancette dell’orologio ancora più indietro e individuiamo il primo discorso all’avvocatura dell’Avv. Zanardelli, pochi anni dopo la costituzione dello stato unitario, che sostiene di come l’avvocato debba saper ridisegnare il proprio ruolo nel dialogo con la società che gli è contemporanea:

 “L’#avvocatura può dirsi non una professione soltanto, ma una istituzione che si lega con vincoli invisibili a tutto l’ordinamento politico e sociale, l’avvocato senza avere pubblica veste, senza essere magistrato, è certamente interessato all’osservanza delle leggi, veglia sulla sicurezza dei cittadini, alla conservazione delle libertà civiche, porta la sua attenzione su tutti gli interessi”. Il futuro ha un cuore antico! Anche noi avvocati, testimoni della #Rivoluzione4.0, ci troviamo ad assistere ad una preoccupante fase di involuzione e difficoltà dell’avvocatura, fenomeno dovuto, credo, non solo alla crisi economica e alla grande trasformazione sociale in atto, ma alla mancanza di strumenti culturali, per una formazione ancorata ad un passato, che ben evidenzia Calamanadrei nel suo volume, di fatto, non permette di fare il salto qualitativo dovuto. Calamandrei raccomanda che la presenza dell’avvocato nel processo avrebbe dovuto essere, “per il giudice garanzia di serietà e di buona fede” sottolinea un elemento che caratterizza ancora, oggi, il processo “…..per difendere il #giudice dalla mala fede giudiziaria dei #litiganti tergiversatori, temerari e bugiardi, la difesa più efficace sia l’esistenza di un ordine di avvocati coscienziosi, i quali inesorabilmente rifiutino il loro patrocinio ai disonesti che fanno della lite una speculazione, e si ribellino a sostenere dinanzi ai tribunali una causa senz’aver la convinzione della sua fondatezza.” Calamandrei condanna, già nel 1921 l’istigazione “al moltiplicarsi delle liti infondate, sarebbe il più efficace contravveleno contro il malanno della litigiosità Secondo questo principio le liti temerarie o meramente dilatorie verrebbero represse sul nascere se tutti gli avvocati applicassero tale principio deontologico di onestà intellettuale, di dignità e competenza. Già in quei tempi ci si appella a requisiti minimi di cultura e di moralità per poter essere ammessi ad esercitare la professione. Requisiti forse necessari, ma non sufficienti. Questo è un “elemento” ancora presente e non superato, in una società ben più complessa di quella in cui è vissuto Calamandrei che individua nella “…forma giuridica ed economica, che meglio è adatta a sviluppare nell’avvocato le qualità per le quali la sua funzione è utile allo Stato, è la libera #professione”, il “sistema” della libera avvocatura ha pregi, ma anche pericoli. Quali? Tutto ciò che si è determinato da allora, lo ritroviamo ora, in una sorta di fotografia del nostro quotidiano “..... il regime di benefica #concorrenza tra liberi professionisti si trasformi in una esasperata lotta per l’esistenza, quando aumentando il numero dei patrocinatori in misura sproporzionata al numero di cause da #patrocinare, il normale lavoro professionale venga a scarseggiare per tutti.” Sussiste una divaricazione tra la “funzione sociale ed utilità pubblica dell’avvocatura” che dovrebbe ostacolare la litigiosità e diminuire il lavoro dei tribunali, che si oppone, invece, al “…. tornaconto professionale dell’avvocato, il quale, essendo retribuito a un tanto per causa, vede aumentare il suo guadagno quanto più aumenta il numero delle cause trattate” Anche nel 2018 assistiamo al medesimo fenomeno di eccesso del numero di #avvocati nel nostro paese. Calamandrei, nel 1920 sostiene che “….i professionisti legali sono in numero enormemente superiore ai bisogni sociali: questa elefantiasi patologica degli ordini forensi, porta con sé, come naturale conseguenza, la disoccupazione e il disagio economico della gran maggioranza dei professionisti, e quindi il progressivo abbassamento intellettuale e morale della professione”

Altra conseguenza che ritroviamo nel nostro quotidiano è il rapporto deteriorato tra avvocati e magistrati. Calamandrei scrive :“L’abbassamento del livello #morale e intellettuale delle professioni legali ha portato come conseguenza inevitabile, specialmente nei grandi centri dove il lavoro giudiziario è più febbrile e dove il gran numero di professionisti….rende assai rari i contatti personali tra avvocati e giudici, una certa freddezza che talora si acuisce in aperta #ostilità, tra #legali e #magistrati”.

Ma non basta. Calamandrei, riferendosi agli organi giudiziari di primo grado, sostiene che a fronte della “… gran marea dei professionisti mediocri, i giudici, peccando un po’ di ingrattudine verso questa professione che dovrebbe servire ….a facilitare il compito della giustizia, hanno cominciato a considerare gli avvocati come coloro che fanno di tutto per ritardare il corso delle liti e per impedire al giudice di conoscere la verità: così per molti magistrati il legale non è il collaboratore di cui ci si fida, ma l’avversario da cui ci si guarda”. Come non essere d’accordo con questa descrizione che, di primo acchito, sembra esagerata e capziosa! Calamandrei è avvocato e conosce bene la categoria alla quale appartiene. Da questo spaccato temporale di ben cento anni emerge una condizione dell’avvocatura statica, irrisolta negli elementi essenziali che ne caratterizzano la professione, nonostante la storia che racconta la nostra società sia ricca di cambiamenti, trasformazioni, evoluzioni che hanno segnato profondamente abitudini, tradizioni, lavoro.

Quali sono, dunque, le esigenze che si presentano nella vita sociale dei potenziali clienti, alle quali, noi avvocati dobbiamo dare un’adeguata risposta? In questi 25 anni di professione di avvocato sono stato testimone di una costante ed irrimediabile perdita di tutte le importanti “#funzioni” dell’avvocato, che non siano quella “giurisdizionale”. La “consulenza preventiva” svolta con competenza a favore del cittadino come dell’imprenditore, potrebbe essere il giusto grimaldello, per disinnescare quel contenzioso che “per quantità e poca qualità” continua a tenere imbrigliata la giustizia, tanto da legittimare, nel cittadino, una generalizzata sfiducia verso il potere giudiziario. L’estensione delle competenze agli avvocati e l’individuazione di nuovi settori di lavoro possano essere elementi utili affinchè la categoria possa affrontare la “#crisi” della professione che è certamente collegata alla crisi economica che ha colpito il nostro Paese, ma anche e soprattutto dovuta dall’immobilismo dell’avvocatura. Tentiamo il percorso accidentato di una possibile trasformazione della professione di avvocato che possa favorire un migliore svolgimento di una delle funzioni fondamentali dello stato di diritto: lo “Ius dicere”. E’ indubbio che la nostra contemporaneità chiede performance e duttilità anche all’avvocato, ma è altrettanto vero che quella “crisi” di cui scrive Calamandrei, rimane molto attuale, anche se rappresentata in forme e modalità differenti. Siamo o continuiamo ad essere testimoni attoniti di una vera e propria caduta del potere dell’avvocatura e della conseguente crisi della professione di avvocato. Con tali presupposti l’avvocatura deve intraprendere un percorso culturale idoneo a far sì che si possa uscire dal pantano lamentoso dell’immobilismo concettuale che caratterizza la categoria professionale.

E’ necessario uscire dal coro disfattista e attendista che non fa nulla per affrontare il cambiamento, #innovare è sinonimo di #evoluzione. Del resto grandi #mutamenti sono avvenuti, grazie alla tecnologia informatica, a prescindere dalla nostra volontà. Non serve a nulla fare #resistenza, questo comportamento condanna l’avvocatura alla marginalità anche economica.

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