Il bambino dotato e il Falso Sè
La frase di Nino Manfredi “I figli so’ diversi, e noi, invece d’esse contenti che non ce somigliano, li volemo fa’ diventà come noi che, poi, manco se piacemo”, riportata nell’immagine, mi ha fatto pensare ai bambini descritti dalla psicoanalista Alice Miller. La psicoanalista, che non condivideva alcune posizioni della psicoanalisi tradizionale, nel 1979 scrisse un libro dal titolo “Il dramma del bambino dotato”.
Il dramma del bambino dotato ha origine dalla capacità del bambino di percepire i bisogni inconsci dei genitori e di adattarvisi, facendo tacere le sue emozioni più spontanee (paura, rabbia, invidia, gelosia) e anche i suoi bisogni, che risultano difficili da accogliere dagli adulti che si prendono cura di lui. Questi ultimi sono adulti insicuri emotivamente che presentano al bambino un’immagine di rigidità e durezza autoritaria necessaria per il proprio equilibrio narcisistico. Il bambino di cui parla Miller, è capace di percepire emotivamente e inconsciamente il bisogno del genitore, di rispondervi adattandovisi, garantendosi così un genitore che non è stato messo in difficoltà dalle emozioni del bambino e che può quindi fornirgli la protezione di cui il bambino ha bisogno.
Così, quando ci troviamo di fronte a genitori che reagiscono alle difficoltà del figlio come se fosse la propria, non in termini di empatia, ma in termini di sentire la propria immagine come “danneggiata” dalla difficoltà del figlio, considerato, inconsciamente, un’estensione del proprio sé, allora possiamo ricordarci della frase del caro Nino Manfredi e del lavoro di Alice Miller.
Ricordandoci di loro possiamo ricordarci che la psiche e le emozioni non sono oggetti concreti e statici, ma sono ciò che siamo mentre viviamo e quanto più le mettiamo in secondo piano, o non le consideriamo, tanto più la vita non è piena. Il “bambino dotato”, da adulto potrebbe anche raggiungere gli obiettivi più alti che si era proposto in quanto ha sempre cercato di essere l’orgoglio dei genitori, riuscendoci, ma potrebbe essere incline al senso di colpa ogni volta che sente di aver tradito l’immagine ideale di se stesso. Gli adulti che hanno vissuto il clima psichico dell’infanzia raccontato da Alice Miller (carenze di considerazione e dei sentimenti, carenze che li porteranno a cercare qualcuno che li ammiri e apprezzi in quanto non si sono autenticamente sentiti apprezzati nell’infanzia), sono persone che non riescono a sentire i propri reali bisogni e che sono riuscite a costruirsi, invece, l’illusione di una buona infanzia in quanto sono cresciute allontanando dalla mente la componente emotiva (e non il ricordo) di quei momenti intensi di quando non si sono sentite accettate, nel loro essere più autentico, dalle persone dalle quali dipendevano.
Non sentirsi accettati (inconsciamente) e compresi durante l’infanzia è un qualcosa che struttura la personalità di un adulto. Non sentirsi, da bambini, “liberi” di poter esprimere rabbia, gelosia, invidia o semplicemente anche un proprio modo di essere “diverso”, in quanto queste emozioni e modi di essere potrebbero non aderire all’immagine e all’aspettativa che i genitori hanno del bambino, è un qualcosa che questi bambini porteranno con se tanto da strutturare una personalità intorno a questo nucleo di emotività e psiche “falsata”. Donald Winnicott, pediatra e psicoanalista, ha insegnato che il bambino può sviluppare un “falso Sé” quando si adatta ai bisogni di chi si prende cura di lui tanto da fondersi con questi bisogni, ciò significa che non solo soddisfa tali bisogni ma ci si identifica. Il bambino, senza saperlo, offre una conferma ai propri genitori che li fa sentire adeguati e amati, in quanto questi trovano in lui un sostituto delle loro strutture mancanti, ma in questo caso è il bambino che non potrà crearsi delle strutture proprie e dipenderà inconsciamente, da adulto, dai suoi genitori come da bambino ne era dipendente consciamente. Essere dipendente inconsciamente, una volta adulto, dai propri genitori ha a che fare con ciò che ho scritto sopra: essere incline al senso di colpa ogni volta che sente di aver tradito l’immagine ideale di se stesso.
Alcune persone iniziano un percorso psicoterapeutico perché si sentono abbattute, accanto alle difficoltà oggettive della realtà e pur avendo raggiunto degli obiettivi nonostante queste difficoltà, si sentono abbattute, demoralizzate, non pienamente soddisfatte o non completamente amate, tanto da non sentirsi in grado di amare pienamente a loro volta. Il percorso psicoterapeutico può richiedere tempo, essere intenso, prima di arrivare al nucleo emotivo del non essersi sentito riconosciuto nel proprio vero essere, in divenire, ed essere stato confuso, inconsciamente, con qualcun altro: essere stato vissuto come un prolungamento del genitore e di quello che quest’ultimo non è riuscito ad essere; essere stato vissuto come colui che doveva lenire i dolori del genitore e le sue insicurezze, o come colui che “sostituiva” l’altro figlio morto, o che compensava l’affetto del genitore (nonno/a) venuto a mancare. Ripeto, ciò avviene su base inconscia, perché accanto a quanto ho appena scritto ci possono essere stati dei genitori, che malgrado le loro insicurezze e utilizzando le proprie risorse, si sono presi cura dei propri figli con tutto l’amore di cui potevano disporre.
Più si accetta la propria diversità, conoscendo se stessi, più si accoglie la diversità dell’altro senza esser spaventati da quello che potrà accadere se non si pone da subito rimedio a questa diversità. Non entrare in questa ansietà permette relazioni più profonde e anche di amare e sentirsi amati, senza sentire il “pericolo” di venir meno a se stessi, che poi, quel “se stessi”, corrisponde solo all’immagine ideale che non è ciò che veramente siamo e che veramente vogliamo essere.
Concludo questo articolo come l’ho iniziato, con le parole di Nino Manfredi che arrivano prima e toccano di più in termini di emozioni: “I figli so’ diversi, e noi, invece d’esse contenti che non ce somigliano, li volemo fa’ diventà come noi che, poi, manco se piacemo”.
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