Il caso, l’uomo e la sua solitudine (scomodando Monod)
Capita non di rado che una felice intuizione verbale colpisca con forza nel segno insinuandosi di lì a poco nel nostro immaginario. Capita che quelle parole si mettano piano piano a scavare come un tarlo e poi restino dentro silenti per giorni, di tanto in tanto emergendo alla nostra distratta coscienza. Dandoci da pensare.
Ho sperimentato qualcosa di simile recentemente. Tra le conclusioni della tavola rotonda ‘A spasso nello spazio’ tenutasi il 26 maggio a Reggio Emilia (https://bit.ly/2trxwVx) è saltata fuori una verità, tanto semplice quanto ovvia.
Tutti noi viviamo su un piccolo pianeta, parte di un sistema solare posto ai margini della nostra galassia la quale ne conta un numero compreso tra i 40 e i 50 miliardi. Ora, la Via Lattea - il cui disco ha diametro di 100mila anni luce - è, a sua volta, una tra i duemila miliardi di ammassi stellari di cui si compone l’Universo. Numeri inimmaginabili, causa prima di vertigini.
Ora, pur essendo innegabile il fatto che recenti indagini (Focus, https://bit.ly/2yK56Lw) stimano in 8,8 miliardi il numero di pianeti potenzialmente in grado di ospitare la vita, la constatazione a cui è sin facile giungere, non senza provare un po’ di inquietudine, suona così: non possiamo considerarci altro che entità infinitesime e, al momento, << soli nell’immensità indifferente dell’Universo da cui siamo emersi per caso, senza destini né doveri prestabiliti >> per dirla con il premio Nobel Jacques Monod.
Ne converrete, allora: per quanti, come me, non si affidano al trascendente nel cercare invano le risposte - e ne sono tristemente consapevoli - tutto ciò finisce per costituire un bel problema. Tutto qui. Qui e ora, appunto.