Il potere della parola
Nella storia della letteratura la parola ha ricoperto numerose funzioni: analizziamone alcune, anche grazie agli esempi dei grandi autori del passato.
Foscolo, nel tenere il suo ciclo di conferenze universitarie a Pavia, invita a non scrivere per la gloria e per il lucro, ma a utilizzare la parola per abbellire il vero, perpetuare il pensiero di una società; egli difende l’autonomia e l’indipendenza del letterato, il suo impegno totale e totalizzante. Il letterato che non si piega alla gloria e alle ricchezze, non piega il suo intelletto per assecondare i potenti e può “comunicare agli uomini le verità utili per il vivere civile” ². Pascoli, solamente diciasettenne, sottolinea il potere civilizzatore della poesia nel suo “Inno alla poesia”: essa è immortale, illumina il buio e fa sbocciare i germogli della società. Lo scrittore Silvio Pellico investe la sua parola di un ruolo importantissimo: quello della redenzione. Egli scrive la sua opera meglio conosciuta “Le mie prigioni” per confortarsi, per rinascere in seguito alla drammatica esperienza della detenzione e fungere da virtuoso esempio. La Parola diventa una via di salvezza:
“Ben mi permise ch’io avessi una Bibbia ed il Dante […] La solitudine perdeva ogni giorno più il suo orrore per me: “Non sono io in ottima compagnia” mi andava dicendo” (Capo VI) ³
“Finché avemmo libri, benché ormai tanto riletti da saperli a memoria, eran dolce pascolo alla mente, perché occasione di sempre nuovi esami, confronti, giudizi, rettificazioni ecc.” (Capo LXXIV) ³
Il permesso di tenere qualche libro, sia nel breve periodo trascorso in una cella a Milano che durante la reclusione allo Spielberg, è sicuramente determinante per la sua sopravvivenza. La Bibbia riveste un ruolo consolatorio, lo invita alla preghiera e lo incoraggia nello sconforto. Anche il dialogo verbale salva Pellico da un infelice destino:
“Ogni colloquio […] era uno stimolo vitale, perenne, all’intelligenza, alla memoria, alla fantasia, al cuore” (Capo LXII) ³
La grande fatica, gli orrori e le sofferenze delle carceri in cui Pellico è stato rinchiuso sono analizzate e denunciate con l’utilizzo della parola. Altri autori prima e dopo di lui testimoniano la loro esistenza tramite la scrittura di denuncia, per raggiungere i loro contemporanei e i posteri. Emilio Lussu, in “Un anno sull’altipiano”, registra ciò che ha vissuto in un grido di accusa nei confronti dei generali, principali artefici delle sofferenze dei soldati semplici. Il silenzio prima dell’assalto trasmette l’angoscia della guerra, e le parole dei comandanti, fondamentalmente vuote, hanno il morboso potere di spingere i soldati alla morte. Le parole asciutte di Lussu sono la sentenza di riscatto di chi è sopravvissuto, e trasmettono la brutalità e la crudezza della guerra. Una simile esperienza la vive Corti: i 28 giorni che trascorre nella sacca sul fronte russo lo trasformano in scrittore; egli vuole lasciare il ricordo e la memoria di chi non è più tornato, vuole lasciare testimonianza ai posteri e plasmare il futuro. Anche la voce di Mario Rigoni Stern, evocando paesaggi, momenti e silenzi, tesse una trama di memoria e di accusa:
“Si cammina e viene ancora notte. E’ freddo, il fiato si gela sulla barba e sui baffi; con la coperta tirata sulla testa si cammina in silenzio. Ci si ferma, non c’è niente. Non alberi, non case, neve e stelle e noi. Chiudo gli occhi sul niente. Forse sarà così la morte…” ⁴
Non solo per gli autori prima citati la parola ha un potere salvifico: sono le poche tremanti ma santissime parole di Lucia Mondella a salvare l’Innominato e a smuovere un sentimento nel Nibbio ne “I promessi sposi” ed è l’immensità culturale del canto XXVI dell’Inferno dantesco che permette a Primo Levi di rimanere uomo, di sentirsi libero per un istante nel contesto de-umanizzante che è il Lager. Nonostante il ritorno alla vita successivo alla Liberazione, Levi sente la necessità di scrivere “Se questo è un uomo” per denunciare le conseguenze della concezione xenofoba e promuovere il ricordo come bisogno e come obbligo. L’idea che eventi come lo sterminio ebraico possano ripetersi è per Levi insopportabile, e da questo sentimento deriva la sua vocazione alla scrittura. Nell’episodio della lezione di italiano, Levi si fa maestro e recita il canto di Ulisse; la Commedia dantesca si fa voce dell’umanità:
“Fatti non foste per viver come bruti,
Ma per seguir virtute e canoscenza”
Levi fatica a ricordare la fine del canto, e per essa sacrificherebbe la sua razione: le parole sono il suo cibo, egli è affamato di conoscenza e per un istante che sembra eterno il ricordo del canto lo fa tornare uomo.
La parola è quindi potente, ha la forza di redimere, consolare, celebrare, evocare, curare, confondere, e a volte manipolare e ingannare; è favola e menzogna, cronaca e invenzione. E’ un’arte e un’arma. Per questi motivi, quella dello scrittore è una missione e una responsabilità. In momenti come quelli che stiamo vivendo, dovrebbe guidarci nel buio dell’incertezza e tenere accesa la fiamma della speranza. Citando il Don Pasqua di Santucci, le parole “contengono una spinta al positivo, alla felicità umana”: l’idea testimoniale e salvifica della parola ci spinge ad essere uomini, nello specifico uomini giusti.
² E. Elli, Il ministero della Parola, Da Foscolo a Santucci, Edizioni ETS
³ S. Pellico, Le mie prigioni, Crescere Edizioni
⁴ M. R. Stern, Il sergente nella neve, Super ET Einaudi