La soglia e lo specchio
Nel giro di poche settimane la vita come la conoscevamo è stata stravolta da una tempesta che sembra non placarsi più. Credo sia un’impressione diffusa quella di essere finiti dentro ad un film catastrofico (come il “Contagion” di Steven Soderbergh più volte ricordato negli ultimi giorni), la cui scena più incredibile potrebbe essere quella di Papa Bergoglio in mezzo ad una Piazza San Pietro silente, buia e battuta dalla pioggia.
Davvero non mi stupirei se chi è lontano dalle zone rosse facesse tuttora fatica a realizzare la portata della pandemia che ha fatto irruzione nella nostra Storia. Nonostante i giornali o i TG non risparmino numeri, dettagli e testimonianze, è difficile accettare quello che sta succedendo. Per chi non ha perso conoscenti, amici o parenti o non è stato toccato direttamente dalla malattia tutta questa faccenda potrebbe sembrare una specie di incubo lontano o un’esagerazione mediatica, troppo spaventosa per essere vera. Io stesso, che vivo nella provincia di Bergamo e sento sirene ad ogni ora del giorno e della notte, che ho dovuto piangere persone care morte nel giro di pochi giorni e ho sperimentato il virus (grazie al cielo in forma lieve) ogni tanto stento a credere a quel che accade.
Ho amici e conoscenti imprenditori (dal negozio all’azienda), legittimamente molto preoccupati per gli effetti economici determinati dalla quarantena nazionale; ho amici e conoscenti operatori sanitari o sociali (medici, infermieri, fisioterapisti, educatori…), con il corpo esausto e la mente traumatizzata dall’orrore con cui hanno dovuto e devono fare i conti. Ho amici e conoscenti che hanno visto portare via dall’ambulanza un genitore, un coniuge o peggio ancora un figlio, a cui ora non possono nemmeno dare degna sepoltura. E poi leggo notizie di ciò che sta succedendo in molti altri paesi del mondo (Spagna, Francia, Inghilterra, Stati Uniti…) in cui si stanno rinnovando scenari simili.
Tutto questo rende inevitabile pensare che probabilmente stiamo attraversando una soglia, uno spartiacque invisibile che separa due mondi. Quello che avevamo costruito con determinazione e difendevamo con la forza delle nostre abitudini (comportamenti e convinzioni) e quello che ci si è spalancato davanti come un baratro, ancora dai contorni incerti. Contorni che risvegliano paure profonde che avevamo tentato di esorcizzare in ogni modo. Paura della finitezza, della fragilità a cui la malattia ci ha esposti in massa e senza distinzioni di età, ceto sociale e condizioni di salute. Paura dell’incontrollabilità e imprevedibilità degli eventi (a prescindere da quale sia stata l’origine del virus), che sottraggono la forza del sentirsi artefici del proprio destino. Paura della povertà, con lo spettro di una pesantissima crisi economica che incombe.
Paura dell’assoluta relatività della nostra stessa esistenza all’interno dell’eco-sistema planetario: vedere quanto la terra stia complessivamente beneficiando del rallentamento delle attività umane non può non suscitare domande spigolose. Queste energie sono impetuose, ancestrali, e se sottovalutate spingono le persone (e le istituzioni) verso l’isolamento, il sospetto reciproco, il pregiudizio e infine la violenza.
Eppure contemporaneamente stiamo contattando alcune fra le risorse più potenti e preziose di cui disponiamo. La collaborazione solidale, ovvero la capacità di mettersi al servizio del bene altrui: professionisti sanitari, associazioni di volontariato, ONG e comunità civile stanno dando quotidianamente prova di una tenacia e una dedizione commoventi. La compassione, la vicinanza emotiva e l’indulgenza che le persone si stanno offrendo reciprocamente nonostante la distanza fisica, per condividere e alleviare il dolore.
La creatività, quella spinta a trovare soluzioni innovative facendo dei limiti uno sprone (mi vengono in mente le maschere subacquee trasformate in respiratori). La fiducia nelle possibilità umane, che si moltiplicano quando si innescano dinamiche cooperative.
Ecco, in queste giornate paradossali, in questo tempo sospeso e forsennato, mi sembra di percepire quasi fisicamente le tensioni contrastanti che si muovono e si mescolano dentro e fuori di me. La luce e le ombre, l’apertura e la contrazione, la quieta speranza e la cupa, agitata frustrazione. Forse a ben vedere non è un nuovo mondo quello che ci si è aperto davanti: è sempre lo stesso, solo spogliato da molte delle illusioni che abbiamo alimentato senza nemmeno rendercene conto. L’illusione di onnipotenza, del controllo e della sicurezza totali, dell’indipendenza autodeterminata, della crescita infinita, dell’intoccabilità. Se così fosse, la terribile opportunità offerta dallo shock-pandemico che stiamo vivendo sarebbe quella di vedere la realtà attraverso uno specchio più chiaro e pulito: la sua inalienabile interdipendenza, la sua equanime impersonalità, l'inarrestabile mutevolezza. Una realtà di cui siamo partecipi e testimoni allo stesso tempo.
Questa visione non ha nulla di rassicurante o di comodo, né sottrae un'oncia alla sofferenza che abbiamo dovuto sperimentare e che ancora ci attende. Eppure può essere che proprio lì risiedano i semi di una rinnovata sensibilità e consapevolezza, che possano orientare le future azioni individuali e collettive. Una traccia silenziosa per muoversi nel frastuono che ci circonda e prima ancora, spesso, ci abita.