La tavola di Emma

La tavola di Emma

Una delle cose di cui mi stupii quando andai la prima volta negli Stati Uniti nel 1983 fu che le persone mangiassero per strada. Mi sembrava qualcosa di irriverente e mi generava una sensazione di strano spaesamento, ma ai tempi non sapevo ancora definirlo bene.

C’era ancora il telefono a gettoni, Lech Walesa vinceva il Nobel per la Pace, sul mondo regnavano Reagan e Andropov, nasceva in Italia la prima bambina in provetta, a Torino bruciava lo Statuto, Tortora veniva ignominiosamente arrestato e Borg si ritirava dalle competizioni. Insomma, un altro mondo.

Tra le cose di un altro mondo a cui invece mi dischiuse il mio viaggio americano, c’era l’abitudine, a miei occhi quantomeno balzana, di mangiare a tutte le ore, dovunque, incluso camminando per strada e spesso in solitudine.

Ora, invecchiata giraffa della savana quale sono, so capire ed elaborare meglio che cosa mi aveva colpito, e in parte rattristato: quella totale mancanza di ritualità e di attenzione al consumo del cibo. Ecco, proprio questo mi sconcertava, che il cibo diventasse mero oggetto di distratto consumo.

I miei ricordi più intensi e ricchi di emozioni, che ancora mi scavano dentro, sono legati a momenti il cui il cibo è stato protagonista, viatico di convivialità, di comunanza, di umanità.

Il cibo e il vino, suo degno compagno, hanno sempre avuto per me una certa sacralità, intrisa del forte legame con ciò da cui provengono, la Terra, con chi ci permette di goderne, i contadini, e con coloro con cui ne godo, i miei commensali.

Ho avuto la fortuna, e non posso che definirla tale, di avere una nonna che trattava il cibo con amore e con amore ce lo preparava.

Intanto aveva sempre cura di dirci da dove veniva: era nata in Lomellina, circondata da risaie, ne conosceva le fatiche, era una persona curiosa e aveva poi passato la vita a gestire un albergo.

Con semplicità ed eleganza arredava la tavola, sempre, anche per lei sola, con una tovaglia bianca. Ricordo, come fosse oggi, come la nonna inorridii quando mia mamma le propose il primo servizio di tovagliette, dette, appunto, all’americana. “Sembriamo isolati”, le disse, “a tavola si sta insieme”. Le tovagliette scomparirono, almeno per i lunghi periodi in cui mia nonna soggiornava a casa nostra.

E soprattutto non conosceva spreco. Nella spazzatura di mia nonna il cibo di certo non finiva: anche il caffè e le bucce di patate entravano in un puntiglioso quanto creativo processo di riciclo.

Questo senso della sacralità della tavola, del cibo e del vino, l’ho ritrovato con intimo piacere nel leggere “Spezzare il pane” di Enzo Bianchi, ex priore della comunità di Bose.

Ho ritrovato in queste pagine il piacere dello stare a tavola, di esserci con tutto noi stessi, di guardarci in faccia e di scambiare molte come poche parole, ma di condividere un momento di pienezza, un gesto di comunione. Di spezzare il pane, e mangiarne tutti, dove in quel tutti non c'è spazio per il microcosmo dei nostri egoismi.

Lo vedo come un momento i cui i nostri sensi, oramai anestetizzati insieme alle nostre menti e ai nostri cuori, godono di un accenno di risveglio: il cibo, il vino e la tavola ci restituiscono una dimensione spirituale e insieme materica della vita, dimensione che tra schermi, stories, whatsapp stiamo perdendo, per non dire che è persa.

Mi stimola la prospettiva di Bianchi che, attraverso richiami biblici e evangelici, mette al centro della narrazione umana e divina dell’Antico e del Nuovo Testamento la tavola, il cibo e il vino con tutto il loro portato simbolico, dove “spezzare il pane è l’atto che istituisce la tavola come luogo dell’Altro”, come ha scritto Massimo Recalcati commentando il pensiero di Bianchi.

Una visione del cibo più intima, e necessariamente intrisa degli altri, una visione umanista ma non antropocentrica, dove ha spazio, anche e soprattutto, la Terra, campo della nostra semina, a cui oggi riserviamo noncuranza, disprezzo e distruzione.

Nulla a che vedere, temo, con la concezione prevalente del cibo di oggi, sempre più vicino a quel modello americano che tanto mi stupì.

Non sono di quelli che dicono che si stava meglio quando si stava peggio, ma del passato qualcosa va conservato per preservarci. Fast food, finger food, super consumo, eccessi da un lato e corpi anoressici inneggiati dall'altro, chef superstar che urlano nelle trasmissioni tv, mi fanno volgere lo sguardo indietro, alle cose di un tempo.

A quei profumi intensi di una cucina nitida e semplice, di cui si impregnavano i muri di casa e i nostri cuori; a quelle tovaglie bianche per le cui macchie, anche quelle più impossibili, c’erano trucchi degni di un mago; a fornelli normali, per usare i quali non avevi bisogno di una laurea in ingegneria e di pentole costosissime; a quei volti di commensali, sorridenti corrucciati inquieti, ma presenti e davvero connessi.

Sarà per questo che tra i tanti abitanti del bush amo la Giraffa, che lenta si avvicina all'acacia spinosa, e ne morde i frutti, senza ferirsi, grazie ai peli intorno al labbro prensile, per ruminare poi per ore, noncurante del passare del tempo.

Alessandro Alcuniti

Congegnatore Meccanico Rep.Prototipi Zamperla s.p.a

2 anni

Ciao non immagini quanto concordo con questa tua fantastica riflessione soprattutto ripensando a quei tre mesi trascorsi nella frenetica New York tanto amata tanto crudele 🤷🏽♂️

Una cosa è certa: mangiare da soli è penoso! La tavola deve essere condivisione, dei cibi, dei sapori delle idee. E' nel Convivio che i Greci educavano i giovani al rispetto delle loro leggi, al rispetto degli Dei, all'essere parte di una Natura in cui l'Uomo è il centro a metà strada tra animali e Dio.

Giuseppe Friscia

Responsabile del sistema di gestione

2 anni

Non poteva essere condensato meglio; Grazie!

Monica Gocilli

Valorizzo l'identità dei brand e amo la Responsabilità Sociale. Conduco workshops di scrittura, musica, teatro e danza.

2 anni

Parli di esperienze che profumano cara Alessandra Colonna. Di recente ho avuto la fortuna di vivere una tavola speciale, un desco stellato. Bellissima presentazione, ottimo gusto, stile impeccabile. Ma non c’era il calore del profumo, quello della casa, del luogo comunitario, dove fare esperienza di un sapore dentro il sapore. E poi come amo la bellezza delle tavolate casalinghe, come quella di ieri sera, scomposte e colorate, dove si accavallano cibi e discorsi, un po’ destrutturate nella loro vivacità che profuma…E mi fermo sul luogo abitato dall’altro, che profuma di libertà.

Barbara Amoroso MD, PhD

Senior Medical Director Early Clinical Development, Hematology Oncology & Cell therapy CITRE, Seville

2 anni

Ho vissuto per lavoro fra aerei, aeroporto, hotel , riunioni e cene di lavoro in tutto il mondo … alcune di queste occasioni le ricordo con piacere , la scoperta di sapori nuovi spiegata da nuovi amici .. altri come un incubo di doveri di rappresentanza e stanchezza . La solitudine dei pasti multipli mai condiviso in USA e non solo, la bellezza del cibo come rito in ASia …Ricordo però la tavola di casa, divisa tra tradizione italiana, rispetto kasher e contaminazioni arabe .., mia nonna chef e maestra di cerimonie… odori che ti entravano nel cuore tornando da scuola e ti cambiavano l’umore…oggi cerco di rievocarli cucinando e di ritrovare il senso della tavola , delle presenza ormai assenze, delle chiacchiere in libertà, lo scambio di pane e racconti .., bella questa Giraffa dei ricordi e del rispetto del cibo

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