"Noi qui non ti vogliamo"​

"Noi qui non ti vogliamo"

La notizia è ghiotta. Eppure, mi sembra che dalle nostre parti non sia apparsa nei canali cosiddetti “mainstream”. Dall’alto dei miei dieci follower, provo a darle un minimo di visibilità. I fatti sono questi: Kelly Conlon voleva portare sua figlia ad uno spettacolo a New York, ma l’ingresso le è stato negato perché la suddetta signora lavora nello studio di avvocati che sta curando una causa contro l’azienda che gestisce il teatro.

E già qui la cosa risulta perlomeno stramba. Posso capire il risentimento, ma dubito che il CEO di una società, anzi una holding, quotata alla borsa di New York, con ricavi pochi sotto il miliardo di dollari, si prenda la briga di impedire l’accesso in uno dei suoi teatri a chiunque gli abbia rubato la merenda quando era alle elementari.

Peraltro, la signora Conlon non lavora neanche alla disputa con MSG, ma è uno dei diversi “associati” dello studio che cura la causa di un ex-dipendente che ha subito un infortunio sul lavoro. Inoltre, a giudicare dal sito, non mi sembra neanche uno studio figo e raffinato, uno di quelli che vediamo nei tanti, troppi, “legal drama” che vediamo in TV. Anzi, la foto in questa pagina (dove appare anche la signora Conlon) mi fa pensare più ai “Soprano”, ambientato proprio nel New Jersey, dove ha sede lo studio. Però i Soprano erano mafiosi, non avvocati. Ma non divaghiamo.

La notizia è un’altra. Non è stato l’addetto alla biglietteria a riconoscere la signora Conlon. E’ stato il sistema di riconoscimento facciale installato all’ingresso (e suppongo anche all’interno) del teatro.

In soldoni, il teatro fotografa tutti quelli che entrano e, se c’è qualcuno che è antipatico alla dirigenza, non lo fa entrare. Anche se ha il biglietto.

Sorvoliamo sul fatto che qualcuno si è preso la briga di mettere nel database di facce sgradite tutti gli avvocati che lavorano in studi che hanno contenziosi con loro. Considerando la dimensione della holding, è probabile che i contenziosi siano diverse decine all’anno. Saranno quindi centinaia gli avvocati che non potranno mettere piede al Radio City Music Hall o al Madison Square Garden a vedere i New York Knicks (e comunque non si perdono molto in entrambi i casi). E chissà quanti altri saranno finiti nelle maglie di questo (sedicente) sistema di sicurezza: dipendenti di banche che non gli hanno dato un prestito, imbianchini che hanno sbagliato il colore di un ufficio, baristi che hanno messo troppo caffè nel cappuccino.

Di fronte ad un’azienda che conserva i dati biometrici dei clienti senza il loro esplicito consenso, la nostra Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali avrebbe comminato una multa tale da risanare il bilancio dello Stato. E forse avrebbe anche condannato il loro CEO a 39 frustate in mezzo a Times Square.

Se questa pratica fosse dichiarata lecita negli Stati Uniti, allora davvero comprenderei le recenti regole UE che tentano di impedire in tutti i modi che i dati personali dei cittadini europei finiscano negli USA, o in Cina, o in qualsiasi Paese al di fuori dei confini europei. 

Se i social network hanno scassinato qualsiasi protezione tra Paesi, l’intelligenza artificiale insieme al gazillione di telecamere sparse per il mondo finiranno per triturare senza pietà ogni tentativo di protezione dei nostri dati personali, senza alcuna possibilità di difendersi. 

Forse non è tardi per impedire che, in nome di una presunta “questione di sicurezza”, i nostri dati vengano abusati senza ritegno. Ad esempio, io voglio continuare ad andare al cinema, anche se una volta mi capitò di rovesciare tutti i pop-corn sulla poltrona.

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