Padri in evoluzione
di Andrea Fianco

Padri in evoluzione

La parola “padre” sembra avere origine dal sanscrito “pa” che significa proteggere e nutrire. Questo ci dice che, storicamente, il padre assolve a questi due compiti vitali, non solo procurando il cibo necessario alla sopravvivenza dei suoi bambini, ma garantendo loro anche una continua alimentazione spirituale e affettiva. Il padre si propone perciò come modello comportamentale a cui il figlio può riferirsi per assimilare e metabolizzare tutte quelle competenze e risorse che sono necessarie per crescere, individuarsi e integrarsi nella comunità.

In fondo tra il padre e la madre cambia solo una lettera. La funzione genitoriale è frutto di presenze alternate e complementari talvolta assolte da una persona, talvolta invece da due e più spesso da molte. Siamo certi che i genitori siano solo quelli che biologicamente hanno generato un figlio? No. Nella storia umana non è mai stato così o perlomeno non sempre. Sono molte le culture che riconoscono nella comunità la principale funzione genitoriale. Il principio della proprietà privata applicata ai figli non è sempre stato appartenente alla società umana. Ma se ci pensiamo bene non è mai stato così dal momento che un figlio sin da piccolo si abitua a stare nel mondo e ad interagire con diverse figure adulte. La scuola rappresenta il primo passo verso altri adulti di riferimento. Sicuramente non si tratta di figure affettive così incisive e così presenti ma nello sviluppo gli adulti significativi incontrati rappresentano modelli di riferimento che svolgono in una qualche misura una funzione genitoriale. Si tratta pertanto di una funzione diffusa che non può essere ridotta alle due persone che hanno trasmesso il patrimonio genetico al figlio. Tuttavia, il padre e la madre sono indubbiamente le figure primarie, primordiali e per questo profondamente legate al figlio. Un legame viscerale che nulla può distruggere o dimenticare. Le mancate cure genitoriali nei primi anni di vita sono causa di profonde ferite che prendono forma in possibili sofferenze adulte. L’abbandono, il maltrattamento, l’abuso, la manipolazione sono alcuni esempi di azioni distruttive verso il figlio che si trova a subire la violenza e ad agirla in una maturazione problematica e disfunzionale.

Nelle sedute di psicoterapia come anche nei colloqui di sostegno psicologico che mi capita di condurre in studio o in altri contesti il tema genitoriale è sempre presente. In fondo sono tutti figli e in qualche caso i clienti sono anche genitori. Nell’esplorazione intima che si realizza nella relazione terapeutica il tema dell’emersione del sé e della propria identità è al centro e in questo centro la madre e il padre sono presenze che si avvertono costantemente nel corso delle sedute. In alcuni casi i genitori vengono personificati e portati nello studio al fine di attualizzare e drammatizzare il vissuto intrapsichico in un incontro con il proprio genitore interiore a cui si affianca sempre un bambino interiore. Il lavoro terapeutico si focalizza spesso sull’andare a sviscerare e rappresentare le dimensioni interne di quelle istanze psichiche assimilate dai genitori che si sono formate nell’infanzia e poi consolidate nello sviluppo. In tutto questo il padre è da sempre una figura sostanziale che influenza intrinsecamente l’identità personale. Padri assenti, padri strani, padri depressi, padri che non ci sono più, padri idealizzati, padri deboli… Se penso a tutte le persone incontrate nella mia professione i padri sono figure affettive sempre e comunque molto presenti.

Il padre non porta in grembo il figlio; non lo sente crescere nella sua pancia; non avverte i cambiamenti corporei che caratterizzano la gravidanza. Al padre manca l’intensità e la concretezza della sensazione corporea e questo rallenta il processo di consapevolezza o lo orienta verso altri canali percettivi che filtrano l’esperienza. La gestazione paterna è tutta basata sul pensare a ciò che sarà e sull’ipotizzare cosa accadrà e cosa cambierà nella propria vita. Ci sono padri che nei primi mesi di gravidanza già si proiettano verso l’immagine del figlio grande, del suo lavoro, di come dovrebbe essere e di cosa è fondamentale trasmettere ad un figlio. In particolare si esprime ciò che assolutamente non si farà dichiarando che il proprio stile educativo sarà in un modo piuttosto che in un altro e altri buoni propositi. L’immaginazione, le aspettative, i desideri saturano la testa ma il corpo non sente la vita nascergli dentro. In questa fase il figlio interiore emerge in modo prepotente perché per diventare padre è inevitabile riferirsi alla propria esperienza relazionale con le figure genitoriali. Nella testa fluttuano immagini e pensieri dell’infanzia, positivi e negativi, che riportano nel presente un passato remoto ricco di vissuti associati a emozioni, sensazioni, atmosfere, profumi, odori, colori, situazioni. Può accadere che si insinui in questi momenti la paura di non essere all’altezza e il disorientamento di chi non sa come fare. Arriva un momento intenso e potente che mette il padre di fronte alla realtà e al nuovo ruolo: il parto e la vista del figlio. In questo primo sguardo il padre sente il peso di un corpicino che si affaccia alla vita e vede gli il viso, gli occhi del suo piccolo. Qui accade qualcosa di forte che tradisce ogni pensiero fatto in precedenza e che disorienta talmente intensa è l’esperienza.

In passato nella nostra cultura la famiglia era rigidamente strutturata intorno a ruoli ben definiti: il padre lavoratore, la madre casalinga e i figli. Il sistema normativo basato prevalentemente su istruzioni religiose imponeva questo sistema familiare: la madre badava alla prole occupandosi in modo prevalente dell’educazione dei figli, il padre lavorava e non poteva, non voleva o più semplicemente non sapeva occuparsi dei figli. Nel corso del ‘900 la famiglia si è radicalmente trasformata. La donna si è sempre più emancipata e i ruoli si sono modificati. Nel nostro tempo esistono famiglie monogenitoriali, famiglie allargate, coppie di fatto, famiglie omogenitoriali e famiglie miste. Questa varietà sociologica ha portato a una sostanziale ridefinizione della figura genitoriale e indotto i padri ad acquisire nuovi stili educativi. Si parla, infatti, di funzioni paterne e materne che possono essere esercitate indipendentemente dal genere di appartenenza. Nella relazione educativa la funzione paterna – che contiene, limita e allo stesso tempo spinge il figlio verso l’autonomia - può essere assolta dalla madre e viceversa la funzione materna – che accoglie e rassicura elargendo calore e continue cure affettive - può essere impersonata dal padre o addirittura, come nel caso delle famiglie monogenitoriali, le due funzioni possono fondersi in un solo genitore che si ritrova ad esercitarle entrambe. In questa nuova cornice anche gli stereotipi di genere hanno subito radicali trasformazioni pur trovando sempre un certo numero di resistenze da parte di chi ancora non riconoscere nell’essere umano il diritto di essere ciò che è indipendentemente dai suoi caratteri sessuali.

Se, ancora adesso, la cultura dominante dice che le cure genitoriali caratterizzate da affetto e contatto fisico siano più attribuibili alla madre e che la maggioranza dei padri ha replicato un modello genitoriale maschile distante e poco propenso alla coccola, abbiamo testimonianza di altre culture in cui il padre ricopre ruoli materni senza che questo venga caricaturizzato con il termine ‘mammo’. Penso, per esempio, ai pigmei Aka che vivono in Africa. In questa tribù, i padri si occupano dei figli quanto le madri, svolgono tutte le attività di cura verso i loro bambini arrivando perfino ad attaccarli al seno quando la madre è impegnata in attività produttive! Abbiamo quindi la conferma che il comportamento paterno è sempre strettamente legato alla cultura di appartenenza e che non ne esiste uno geneticamente precostituito e nemmeno esiste un modo unico, ideale e giusto di essere padre. Esistono piuttosto sistemi socio-culturali che favoriscono stili paterni adeguati al contesto.

Personalmente credo che la natura del padre sia ben più complessa e che sia fuori luogo incasellarla in una definizione riduttiva e a tratti ridicolizzante, qual è quella del ‘mammo’. Il padre può essere affettuoso, amorevole e vicino al proprio bambino attraverso le cure parentali che vanno dal cambiare il pannolino a giocare con le macchinine e molte altre. Il fatto che finalmente questa parte della paternità possa esprimersi è un segno evolutivo e sicuramente benefico per i figli. Accade così che il padre possa svincolarsi dall’etichetta di pater familias, in cui autorità e potere dominavano incontrastati, per assumere forme di genitorialità più morbide e flessibili.

Tutti i padri sono stati figli e tutti i figli potranno, un giorno, diventare padri. La filogenesi è una lunga sequenza di padri che hanno trasmesso istruzioni sociali, culturali e comportamentali ai propri figli. In questo continuo e naturale filo di trasmissione intergenerazionale si susseguono dialoghi, scontri, vissuti, ricordi, emozioni, sensazioni. Lo sguardo del figlio fatica a comprendere l’esperienza genitoriale almeno fino quando da figli si valica il confine e si diventa padri. Qui la prospettiva inizia gradualmente a riconfigurarsi e in questo passaggio si torna a sentire, ricordare e rivivere il figlio che si è stati con uno sguardo diverso e più consapevole. Ritornano immagini, profumi, parole e atmosfere che riportano a quella dimensione, a volte piacevole, a volte molto dolorosa. Nello stare con i figli e nel diventare gradualmente genitori, si riprende contatto con il figlio che siamo stati, con il padre e con la madre che abbiamo avuto e poi interiorizzato. Il figlio, la madre e il padre sono dentro di noi. Quando ci rivolgiamo ai nostri figli, capita che in realtà e in modo inconsapevole ci stiamo occupando del nostro bambino interiore e delle dinamiche affettive in cui era immerso. Nel divenire genitori sorgono paure, domande, riflessioni che ci riportano a momenti cruciali del nostro sviluppo. Ha ragione il poeta Gibran quando dice che: “I vostri figli non sono figli vostri...sono i figli e le figlie della forza stessa della vita”, ma il nostro bambino interiore, al contrario, è e sarà sempre con noi come in una perenne gestazione e solo noi adulti possiamo continuare a prendercene cura.

La letteratura ha ampiamente approfondito questo processo intrapsichico che agisce continuamente sul nostro mondo relazionale e affettivo. La qualità del nutrimento affettivo ricevuta in età infantile ha un effetto concreto sull’adulto che verrà, e su come costui saprà assumere il suo ruolo genitoriale. Al processo intrapsichico si accompagna l’apprendimento sociale, che funziona per osservazione e imitazione e favorisce l’acquisizione di competenze personali e relazionali. Il nostro cervello apprende anche solo guardando ciò che accade e noi abbiamo fatto lo stesso quando abbiamo assistito allo stile genitoriale dei nostri padri e delle nostre madri. Sono stati loro i primi a farci vedere come si fa, e loro stessi hanno imparato da altri modelli e così via. Le ferite subite, le carezze ricevute, le parole dette e non dette, la presenza o l’assenza hanno contribuito a formare il carattere del padre che verrà. Dentro di noi portiamo una sorta di matrice affettiva che in qualche misura influenza e agisce sul nostro comportamento genitoriale. Una matrice fortemente regolata da ciò che abbiamo sentito e vissuto come figli, nel bene e nel male. Le ferite e le carezze sono le pietre angolari che supportano la nostra struttura personale. Possiamo essere stati capaci, nel tempo, di costruirci una buona casa che si auto-sostiene. Se invece la struttura è precaria, allora è opportuno che ci attiviamo per prenderci cura delle nostre fragilità. Divenire più consapevoli del nostro mondo interiore è fondamentale per essere buoni genitori. Se il nostro bambino interiore piange possiamo confortarlo, se invece ha bisogno di aiuto possiamo aiutarlo, se ci chiede di essere ascoltato possiamo ascoltarlo, se è arrabbiato lasciamo che si esprima e quando è felice possiamo farlo giocare.

Si parla sempre più diffusamente di padri assenti, non autorevoli, di “mammi” senza spina dorsale o al contrario di padri violenti, rabbiosi, autoritari e maschilisti. Le dissertazioni inerenti la crisi della figura paterna dilagano. Spesso si attribuisce la causa del disagio adolescenziale contemporaneo all’assenza del padre o, al contrario, alla sua presenza molle e poco autorevole. Dal mio punto di vista, più che all’evaporazione della figura paterna, stiamo assistendo a un sano processo evolutivo. I padri sono cambiati contestualmente al cambiamento dei modelli familiari e dei relativi contesti socio-culturali. In questa epoca i padri possono essere anche un po’ madri, possono essere deboli, manifestare le propria sensibilità, essere ansiosi, cucinare e occuparsi della casa, possono cambiare i pannolini e prendersi permessi dal lavoro per dedicarsi ai figli. Stiamo assistendo all’umanizzazione della figura paterna.

Il padre del nostro tempo si sta dando il diritto di essere ciò che è. In questa trasformazione si svela in tutta la sua umanità. Si tratta di una vera e propria mutazione comportamentale e culturale della nostra società. I ruoli e le funzioni genitoriali non sono più così strettamente connessi al genere. Il maschile e il femminile si contaminano sempre di più e questo induce il padre e la madre ad essere persone più autentiche e quindi meno incastonate in copioni rigidi.


Per visualizzare o aggiungere un commento, accedi

Altri articoli di Andrea Fianco Ph.D.

Altre pagine consultate