“PROCESSO” ALLA PRATICA COLLABORATIVA - Firenze, 18 marzo 2016

“PROCESSO” ALLA PRATICA COLLABORATIVA - Firenze, 18 marzo 2016

Dichiarazione iniziale della difesa, Avv. Carla Marcucci, Presidente AIADC

Grazie Presidente.

Grazie soprattutto alla Pubblica Accusa che propone una contestazione alla Pratica Collaborativa   che mi consente, e ci consente come Associazione, di tornare ancora una volta  a riflettere su quanto è stato oggetto dei nostri dubbi, quando ci siamo avvicinati a questo nuovo modo di risoluzione dei conflitti.

Pertanto capisco molto bene il ragionevole dubbio della Pubblica Accusa e, attraverso questo processo e l’escussione dei testimoni, è mia intenzione dimostrare  quale sia il valore aggiunto della Pratica Collaborativa rispetto al metodo che, solo per praticità, chiamerò d’ora innanzi “tradizionale” riferendomi, con questa espressione, a quell’approccio conciliativo che io stessa ho usato per tutti gli anni della mia professione e che continuo ad usare tutt’oggi, quotidianamente, ogni volta che non posso applicare il metodo collaborativo e mi impegno in trattative con i colleghi avversari per giungere ad accordi.

Il valore aggiunto di questo nuovo metodo consiste proprio nel fatto che l’avvocato, con la Pratica Collaborativa, non si adatta alle varie situazioni che si trova ad affrontare, conciliando o scontrandosi con l’altra parte, secondo i casi, ma crea un contesto che rappresenta esso stesso il contenitore ideale per condurre ad accordi.

La Pratica Collaborativa, così facendo, moltiplica le possibilità di soluzioni conciliative perché non aspetta che si creino casualmente condizioni favorevoli per trovare un accordo ma le crea deliberatamente. Trovare o non trovare un accordo non dipende dal fatto che l’avvocato sia mite o, all’opposto, combattente, ma piuttosto dal fatto che le due parti in conflitto e i rispettivi avvocati lavorini in un contesto preordinato a favorire il raggiungimento di un accordo piuttosto che in un contesto strutturato ad altri fini, ad esempio per valutare chi abbia ragione e chi abbia torto. Non ci definiamo professionisti collaborativi perché propendiamo verso un atteggiamento “mite” o “buono” ma perché applichiamo regole di gestione del conflitto ben precise e rispettiamo una coreografia che prevede fasi e s’ispira a principi

Potrei dire che è tutta una questione di tavoli e di quali sono le regole del gioco che si osservano a ciascun tavolo.

Abbiamo capito che esistono contesti - ossia tavoli - che favoriscono e nutrono il conflitto, a prescindere dalla volontà delle parti e dei loro avvocati, ed altri che favoriscono e facilitano la soluzione bonaria del conflitto.

Prendersi cura del contesto in cui lavoriamo è, dunque, cruciale e preliminare ad ogni altra considerazione. Noi stessi professionisti, e non solo i nostri clienti, ci predisponiamo in modo diverso secondo il contesto in cui ci muoviamo.

Modificare il contesto nei modi richiesti dai principi della Pratica Collaborativa significa creare ponti piuttosto che innalzare muri, tracciare scivoli per la comunicazione e la comprensione fra le persone in conflitto, favorire soluzioni creative che soddisfino le esigenze di entrambe le parti in lite.

In un paese che soffre di una proliferazione inaudita di norme, spesso di controversa interpretazione, la Pratica Collaborativa si regge su tre regole chiarissime e d’immediata comprensione che ci impegniamo tutti – parti e professionisti - ad osservare sedendoci a quel tavolo:

PRIMA REGOLA - Le parti in conflitto accettano di essere protagoniste della soluzione di tale conflitto. La soluzione del conflitto è nelle mani dei diretti interessati. Loro conoscono il modo migliore di risolverlo perché sanno quali sono i bisogni e gli interessi che perseguono con le posizioni che esprimono. Sono loro gli esperti!  Quindi, nella Pratica Collaborativa, NON esistono deleghe per la soluzione del conflitto né agli avvocati, né agli altri esperti né, tanto meno, ad un giudice. I professionisti accompagnano le parti in conflitto, le assistono, le affiancano adattando i loro interventi alle necessità dei clienti ma non le sostituiscono mai e non le rappresentano perché le parti hanno voce per parlare in nome proprio.

Immaginate una giovane coppia che si appresta a costruire la casa per la propria famiglia. Ha due alternative: può consultare un architetto mettendosi al tavolo con lui e gli altri tecnici per farsi aiutare ad individuare le esigenze abitative della famiglia e come realizzarle nel modo migliore, rimanendo al centro della discussione il dialogo fra i due, per confrontarsi sulle rispettive esigenze; o, al contrario quella giovane coppia può delegare completamente l’architetto a costruire la casa secondo i canoni della moda e le migliori teorie. Nel primo caso avremo una costruzione tagliata addosso alle esigenze di quella famiglia e quella casa parlerà dei suoi abitanti, nel secondo caso avremo un risultato, magari ineccepibile dal punto di vista estetico e tecnico, ma forse non funzionale per quella famiglia. La casa avrà lo stile dell’architetto, come tutte le altre costruite da quel professionista, piuttosto che lo stile della famiglia che vi abiterà e che nel tempo, forse, sarà costretta a richiedere nuovi interventi per adattare l’immobile alle effettive esigenze.

SECONDA REGOLA - I professionisti che assistono le parti in conflitto e le accompagnano durante la procedura collaborativa condividono la stessa formazione alla Pratica Collaborativa, condividono dunque, prima ancora che una tecnica e un metodo, anche un’idea del significato della separazione, e del modo migliore per affrontarla, osservano gli stessi principi e s’impegnano a non rappresentare il proprio cliente in un eventuale futuro giudizio contenzioso che venisse intrapreso fra le stesse parti per la soluzione di quel conflitto, qualora la procedura collaborativa non avesse avuto esito positivo. Perché, chi di noi accetterebbe di lavorare davvero ad una negoziazione per trovare un accordo facendo squadra anche con il coniuge e l’avvocato di questi, mettendosi completamente in gioco,   se  dovesse temere che domani quello stesso avvocato che oggi mostra un atteggiamento conciliativo potrebbe difendere in giudizio le ragioni del cliente per farlo vincere e farci soccombere?

Gli avvocati sono necessariamente due, uno per ciascuna parte.

TERZA REGOLA - Trasparenza, Buona Fede e Riservatezza sono i principi cardine, collegati strettamente fra loro, che connotano tutta la procedura collaborativa perché le parti devono avere tutte le informazioni rilevanti per decidere un accordo e allo stesso tempo sapere che le informazioni ricevute non saranno oggetto di strumentalizzazioni. Se mi siedo al tavolo della Pratica Collaborativa, devo giocare a carte scoperte, non posso mantenere segreti e non posso riservarmi di giocare la carta vincente che spiazzi l’altra parte.

La Pubblica Accusa ha citato anche Mediazione familiare e Negoziazione assistita che  rappresentano opzioni procedurali per risolvere le controversie appartenenti  alla stessa famiglia della Pratica Collaborativa e le ha citate assumendo che la loro esistenza renderebbe superflua la Pratica Collaborativa.

La Mediazione Familiare è un’ottima risorsa per quelle persone che sono in grado di accettare di fare un percorso da sole, senza un avvocato a fianco, in compagnia del solo mediatore, ossia di un terzo imparziale.

Ma quanti affronterebbero un viaggio intercontinentale in aereo con un solo pilota?  

Per le persone la separazione è un viaggio molto impegnativo, spesso un vero e proprio salto nel buio, che affrontano più volentieri se accompagnati da un avvocato, sempre al loro fianco.

Rispetto alla Negoziazione assistita, e volendo mantenere la metafora del viaggio, mi domando chi di noi si metterebbe in mare, per affrontare una traversata pericolosa, se sapesse che a bordo, fra l’equipaggio, c’è anche chi, in caso di naufragio, potrebbe farci affogare per portare in salvo l’altro passeggero.

La legge che ha introdotto la negoziazione assistita, invece, consente che gli avvocati continuino ad assistere i rispettivi clienti se la procedura non pervenisse all’auspicato accordo e fosse necessario scontrarsi in tribunale, ponendo poi quelli stessi avvocati nella condizione, in quel caso, di non poter svolgere una difesa piena.

Come le “tre scimmie sagge” gli avvocati che si dovessero trovare in quella non invidiabile condizione dovranno fare, infatti, come se non avessero sentito e visto quanto è accaduto durante la negoziazione assistita fallita, con tutte le problematiche, anche di carattere deontologico, che conseguono da tale delicatissima posizione.

Quando, in altra sede, ho definito la Negoziazione Assistita una “scatola vuota”, come ha ricordato la Pubblica Accusa, mi riferivo anche alle ulteriori, gravi lacune che il legislatore che l’ha introdotta ha lasciato nella sua regolamentazione. Non è stata sottolineata, ad esempio, la necessaria attiva partecipazione delle parti; non sono state individuate le modalità concrete delle negoziazione, se non prevedendo alcune lacunose formalità della procedura, foriere di contrastanti interpretazioni e di gravi sanzioni per gli avvocati, in caso d’inosservanza o di errata interpretazione; non è stato garantito un contesto di trasparenza e di effettiva riservatezza nella negoziazione; non è stata richiesta alcuna specifica formazione degli avvocati nonostante sia noto che negoziatori non ci si improvvisa ma si diventa a seguito di percorsi formativi ad hoc.

Per salvare l’idea rivoluzionaria sottesa alla Negoziazione Assistita – ossia la privatizzazione della risoluzione dei rapporti fra coniugi - è necessario superare le incoerenze e i limiti della regolamentazione della Negoziazione Assistita e per fare questo è sufficiente riempire quella “scatola vuota” con i principi della Pratica Collaborativa.

Negoziazione Assistita e Pratica Collaborativa a braccetto potranno andare veramente lontano portando la famiglia, sostanzialmente e non solo fisicamente, fuori delle aule di tribunale in un contesto molto più adatto a risolvere il conflitto familiare, purché questo contesto offra quelle garanzie di struttura, principi, competenze e capacità immaginate da Stue Webb quando ebbe l’idea geniale di creare quel contenitore pieno che è la Pratica Collaborativa.

In conclusione il viaggio che noi proponiamo ai nostri clienti che decidono di risolvere una controversia con la Pratica Collaborativa  è  un’esperienza personale -  perché quel viaggio lo faranno loro in prima persona – è sicuro – perché saranno  sempre in compagnia ciascuno del proprio avvocato -  è pienamente soddisfacente – perché troveranno risposte per tutte le sfaccettature del loro problema (legali, relazionali /di comunicazione e finanziarie)-  grazie al fatto che a bordo c’è un team professionale nell’ambito del quale le varie competenze s’incrociano e si completano.

Insieme prenderemo il mare, consapevoli che affronteremo tutti i rischi, anche quelli delle tempeste più pericolose, con la forza che deriva dalla certezza di avere a bordo tutto ciò che serve per fare la traversata e per arrivare sani e salvi in porto, tutti sempre remando verso la stessa meta, con la certezza che mai nessun componente di quel team  professionale potrà remare contro, qualunque cosa accada.

Per concludere, sempre con la metafora del viaggiare, oggi proponiamo a tutti voi di fare un viaggio insieme a noi nel mondo della Pratica Collaborativa, per ragionarne insieme e confrontarci anche con idee diverse che ci aiuteranno  a proseguire e  progredire  nel nostro cammino.




Per visualizzare o aggiungere un commento, accedi

Altri articoli di Carla Marcucci

Altre pagine consultate