Quando complessità fa rima con creatività. Da Netflix alle start-up.
L'accelerazione delle mutazioni economiche, tecnologiche e ambientali sta trasformando, inevitabilmente, le attività, e l’orizzonte, delle organizzazioni. In particolare, si stanno “avverando” alcune previsioni della teoria complessità applicata alla microeconomia, che hanno identificato nella velocità dei flussi di conoscenza (leggi anche digitalizzazione) e nell’avvicinarsi dei punti di crisi (leggi anche gestione del rischio) due snodi fondamentali di questi anni. Sintetizzandolo, le imprese devono imparare ad affrontare due temi cardine.
Il primo è che la complessità non è più un oggetto da maneggiare con diffidenza, ma una realtà che può divenire generatrice di valore.
Il secondo è che l’apprendimento (degli imprenditori, delle organizzazioni) è una leva competitiva, e le forme di apprendimento utilizzate finora non sono sufficienti.
Dobbiamo quindi essere consapevoli che siamo di fronte a un nuovo modello, poco esplorato. I paradigma succedutisi nel ‘900, il fordismo delle grandi organizzazione con il Welfare State, e il capitalismo flessibile dell’impresa diffusa addensata nei distretti industriali, stanno cedendo il passo a qualcos’altro, che ha per ora contorni sfumati.
Nella fase del post-fordismo dei decenni appena passati, in diversi casi le grandi imprese avevano dismesso funzioni e posti di lavoro a favore di fornitori flessibili e molto piccoli, il cosiddetto “capitalismo molecolare”. Dopo i primi effetti negativi si capì che l’azienda flessibile era in nuce un sistema di produzione moderno, perché univa flessibilità ad efficienza.
Oggi possiamo delineare alcuni aspetti del nuovo paradigma, che sono sotto i nostri occhi: una transizione digitale pervasiva, l’esplosione dei soggetti con i quali l’azienda si deve confrontare (dal territorio alla “community” alle istituzioni), nuovi modelli imprenditoriali (start-up) e organizzativi (agile).
Un approccio coerente alla complessità può aiutare manager e capi azienda a compiere questo passaggio dall’automatismo delle strategie e dei processi aziendali (standardizzare per aumentare i margini e ottimizzare) all’uso intelligente della personalizzazione dei prodotti e dei servizi, dell’interazione creativa con i clienti e i partner (che vanno riconosciuti e con i quali occorre costruire nel tempo una relazione)
L’impresa diviene una rete collaborativa che produce valori co-prodotti, ma anche una comunità di senso, in cui i players interni ed esterni imparano a condividere progetti, investimenti e risultati.
Certo, la capacità di stare contemporaneamente nei due modelli è vincente per le aziende più strutturate, mentre le più giovani o le più piccole, agili by definition, sono già attive su forme più creative di fare impresa.
Come fa notare Enzo Rullani, l’esito del cambiamento dipende sostanzialmente da due fattori:
a) come sono gestite le contraddizioni emergenti, collegandole o meno alle opportunità rese accessibili dal digitale;
b) come viene utilizzato il valore generato dalle innovazioni.
Sotto il profilo organizzativo, i modelli emergenti tendono a far diventare i manager (e anche i quadri), sempre più “imprenditori”, i team sempre più agili e autonomi, all’interno di cornici o piattaforme che assicurano continuità e servizi di base. Una lean organization 2.0, destrutturata ma fortemente coesa dalla condivisione di valori, obiettivi, metodi. Oggi il modello Freedom within a Framework è adottato da aziende come Netflix, Morning Star, Campbell’s.
Questi protagonisti dell’impresa orizzontale e poco gerarchica devono arrivare a un’intensità e a un’unità d’azione che non può nascere che da una formazione continuamente rinnovata. Una formazione manageriale che educhi a un apprendimento non più strumentale, non più solo evolutivo e adattativo, ma anche “creativo”. Una formazione i cui contenuti non sono più competenze strette (talvolta ormai demandate alla tecnologia) o saperi tecnici (talvolta ormai divenuti obsoleti), ma la capacità di tenere insieme, di rischiare, di trovare soluzioni inaspettate.
La sostenibilità sociale di modelli d’impresa disruptive, può essere problematica a breve e medio termine, perché rischia di lasciare indietro chi non trova facilità di accesso a questa nuova economia.
Per questo sono chiamati in causa, inevitabilmente, i soggetti collettivi – Stato, organizzazioni di rappresentanza, comunità locali– che dovrebbero fornire la cornice più efficace per intercettare i problemi e costruire nuove soluzioni. Ma, insieme a loro,
un ruolo decisivo è riservato al management, cioè a tutte le persone che fanno impresa, perché sperimentano e disegnano in modo diretto, e quindi conoscono meglio di altri, i nuovi sentieri della continuous innovation.