Rasta e il quadro in onore alla devozione a sant'Agata. L'opera resterà visibile al Palazzo della Cultura di Catania fino al 10 febbraio.
DIVA AGATHA. Un racconto di bellezza e agnizione
NUOVI SEGNI · LUNEDÌ 29 GENNAIO 2018
Lo spazio dipinto da Rasta Safari è il luogo di un incontro. Alla maniera della pittura italiana del Trecento, lo spazio dell’opera di Rasta Safari si fa narrazione, racconto attonito di questo incontro. È l’incontro fra la martire Agata e i suoi devoti, fra la Santa e la sua Città, fra il divino e l’umanità. Un incontro che avviene sullo stesso piano, perché empatico è il moto divino verso la creatura. Il piano è tutto giocato sulla verticalità. Il piano osservato è un piano verticale, teso, ascendente, innervato in una circolarità sacra e allusiva, scavato, catabatico come la spelonca primordiale o l’utero della Grande Madre. Il racconto riverbera la risonanza tra il corpo, la storia e il presente di Cristo e il corpo, la storia e il presente dell’uomo. Come nel Sacrum Convivium di Oliver Messiaen, in cui la risonanza è ancor prima del suono, lo spazio dipinto da Rasta Safari è risonante di sacralità ancor prima dell’avvento del sacro; è specchio e iscrizione reciproca di ogni cosa sull'altra. La pittura di Rasta Safari, come la musica di Messiaen, stempera ogni celebrazione magniloquente del cristianesimo, che pur la abita, con un aperto dialogismo; pittura tutt'altro che ripiegata su sé stessa, che chiama a raccolta, come a costruire un arco sonoro che si estende e abbraccia, tutela e canta ogni cosa. Per Rasta Safari confrontarsi con il divino non è un problema di rendere visibile l’invisibile; ma, semmai, di riconoscere ciò che è già visibile e consegnarlo al mondo nel gesto sconvolgente e trasformante dell’arte. Riconoscere è, dunque, identificarsi – i devoti si identificano con la loro Diva Agatha, la Città si identifica con la sua Santa Martire, l’umanità si identifica nel Cristo Redento - in un moto irresistibile che spinge il sé verso l’Altro, in una agnizione di bellezza e di redenzione di cui il corpo ferito è epifania. L’artista si è a lungo misurata con gli antichi testi che tramandano la pietas della devozione popolare e con le esperienze di rivelazione del culto agatino, con la grammatica generativa dell'homo religiosus: l'invocazione, la preghiera, il sacrificio e il riscatto del martirio, l'enigma dell'origine e la domanda della destinazione. I colori del dipinto raccontano questa storia di bellezza e di agnizione. Stesi sulla tela alla maniera dei pittori del tardo Cinquecento e del Seicento, dominano la scena i timbri chiusi, nella variazione del bitume giudaico, del nero fumo, dell’avorio bruciato e della cartapecora arsa. Il bianco della biacca di irradia dal corpo della Martire, si sprigiona dal centro e dilaga sulla parte superiore del dipinto, accende la luce dei ceri devozionali, si scioglie nel giallo d’ocra, nel giallosanto e nell’orpimento del fondale. Rasta Safari ha lavorato su timbri e durate, realizzando un connubio tra limpidezza e austerità, consentendo a ogni figura di assumere un alone severo, contrastivo, pervaso da inquieta tempestosità. La giovane pittrice iraniana esplora dimensioni tenebrose e magnetiche. Una energia musicale si sprigiona dalla tela, si drammatizza; si dipanano atmosfere livide, elettriche, che stupiscono per quanto riescano ad essere modernissime, contemporanee, e, parimenti, dal sapore profondamente antico. Il dualismo cromatico nero-bianco che marca i due piani dell’opera, quello inferiore e quello superiore, assume nel dipinto una forte connotazione simbolica. Esso rinvia, da un lato, all’oscurità che avvolge l’umanità smarrita, dall’altro alla purezza e alla verginità della Santa. Si coglie, in questo dualismo, che è anche una delle cifre stilistiche dell’artista, un persistente richiamo alle cosmogonie iraniche, e, in particolare, allo Zoroastrismo, filosofia che Rasta Safari recupera in una operazione di raffinato e sensibile sincretismo. Le fiammelle dei sei ceri devozionali che compaiono nel dipinto, tre alla destra della Martire e tre alla sua sinistra, rappresentano, in una perfetta simmetria simbolica ternaria, il richiamo alla Trinità, l’ardore devozionale nutrito dai devoti verso Sant’Agata e il fuoco purificatore della fede. In esse baluginano le sei entità benefiche dello Zoroastrismo - gli Ameša Spenta – ipostasi di Ahura Mazdā, che vigilano sull’integrità degli uomini. Al centro del dipinto, il colore rosso accende la candida veste della Santa completando nel trionfo del martirio il il ternario cromatico che scandisce l’opera. I devoti silenti sciolgono lo sguardo verso la numinosa epifania della Santa, prostrati, sfiniti dall’enormità dell’afflizione, come i Prigioni di Michelangelo, le deformi creature di Bacon, le anime tormentate di Congdon. Anelano a quella bianca trasparenza, profonda, calma, infinitamente aperta alle loro domande, alle loro attese, al loro bisogno di verità. Si ascoltano suoni mentre si vedono segni, forme, colori farsi sostanza viva di senso. Affiora, da questa sostanza, il motivo dell’Errore e della ricerca, l’Irr Motiv caro al Wagner di Parsifal, che abbraccia ed avvolge ogni figura in un percorso cromatico legato e discendente, contrapposto a un ascendere frammentato, difficoltoso, periclitante. Rasta interpreta così, nel suo dipinto, i principi basilari della poetica dell’adeguazione teorizzati da Grisey e da Leipp in riferimento alla coesistenza tra immagine visiva e immagine sonora, realtà in cui si esperisce la possibilità di uscire dal tempo umano dell’udibile per andare incontro all’inudibile del sacro, come ci ha insegnato il misticismo medievale con i Vittorini, Bernardo da Chiaravalle, Angela da Foligno, Meister Eckhart; e, dopo, Kerényi, Guénon, Caillois. Una plasticità inquieta muove le figure, nutre ogni forma. In essa si traduce il dissidio che alita in ogni creatura, la paura che morde l’anima, e che l’artista riesce a rappresentare quasi facendosi carico della doglia che si impossessa dei corpi sino a curvarli, del destino che li chiude nel loro transito terreno, in quello spazio cieco, finito – kenosis, dubbio, attesa - che soltanto il bianco fulgore dell’epifania del martirio squarcia, aprendo una ferita di luce che destituisce ogni finitezza, ogni sordità di limite. Nel dipinto di Rasta Safari questa ferita di luce esprime una persistente tensione verso una ricerca di assoluto. Una tensione che varca la soglia del dicibile e proietta altrove. Questo altrove si configura, nell’opera di Rasta, come spazio in cui si esperisce una percezione dilatata e plurale, che convoca l’umanità afflitta, devota, attorno alla sua Santa. L’artista ha realizzato nel suo dipinto una mise en place barocca, cogliendo l’intimità del rapporto dialogico che la comunità ha con la propria Santa, e che ha il suo proprium nella processione devozionale, festa e Mistero barocchi par excellence. Per Rasta Safari non esiste sacro senza coralità e alterità, né rigenerazione senza dissoluzione; motivi, questi ultimi, che rinviano alla dimensione barocca dell’evento. Il sangue sparso dalla martire Agata, in tal senso, nel dipinto di Rasta si trasmuta nell’ancestrale dispersione del solve et coagula junghiano, scontro tra le oscure forze ctonie e le luminose energie uranie, pellegrinaggio dell’anima verso la sintesi, attraverso una ricerca di senso – di cui la processione è rappresentazione - che spalanca gli abissi del numinoso e dell’ineffabile, nutrimento dell’artista e del cosmo. Questo legame tra individuo e cosmo, di cui la martire Agata si fa medium con la preziosità del suo corpo ferito, riflette la ciclicità del ritorno, nostalgia dei miti cosmogonici iranici che appartengono alla matrice culturale dell’artista e che si incastrano, come un discorso superstite scampato allo scempio della violenza e della sopraffazione di ogni bêtise, nel prodigio della Purificazione, ove affiora il tema della Entsühnung del Parsifal, che nella dolcezza circolare dei flauti e degli oboi esprime l’abbraccio dei devoti ad Agata; e che allontana l’atto creativo dell’artista da ogni istanza coercitiva, di potere, di razza, di etnia, precipitandolo nel regesto del minoritaire, del pensiero disingannato, del desiderio disincarnato, in un altrove di ferite e di gioie in cui l’umanità si raduna e si concede il privilegio della speranza, e in cui l’arte intravede il divino, fermandone per sempre il sorriso di grazia in un racconto di bellezza e agnizione.
Salvo Sequenzia