Smart working

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Coronavirus, lo smart working piace agli imprenditori italiani

Risale ormai al 23 febbraio l’inizio dell’emergenza pandemica legata al COVID-19 per le società italiane. Una data cruciale, a partire dalla quale i comuni e tutte le società operanti nelle cosiddette zone “focolaio” hanno dovuto fare i conti con una tragica chiusura che ha coinvolto, decreto su decreto, tutta l’Italia e una fetta larghissima del tessuto imprenditoriale dell’intero Stivale.

Una chiusura che in alcuni casi si è rivelata dannosa, alla quale corrisponde ancora oggi un incasso di zero euro mensili, a fronte di spese fisse (affitto locali, attrezzature, pagamento dei fornitori ecc.) che stanno mettendo tutt’oggi l’Italia di fronte a una tragedia economica, oltre che umana (parliamo di oltre 17mila morti alla data del 08/04/2020).

Certo, per tutte quelle aziende che sono andate incontro a uno stop totale, si è provato a contenere il problema attraverso il ricorso alla CIS (cassa integrazione straordinaria), a cui hanno avuto accesso tutti quei lavoratori assunti prima del 23 febbraio 2020 in un primo momento, allargando la soglia d’accesso a questa politica passiva del lavoro anche a tutti quelli assunti dopo questa data (l’ufficialità attraverso il DPCM

Ma questo non bastava perché c’è una parte del paese che non ha chiuso totalmente battenti, e che si è dovuta organizzare e andare avanti, stringendo i denti e cercando di continuare a garantire al massimo tutti i suoi servizi. Parliamo di tutte quelle aziende, fra cui figurano anche alcune APL, che hanno dovuto fare i conti con una forte e radicale riorganizzazione del lavoro, per garantire continuità a tutti quei settori oggi necessari più di ieri a cui oggi spetta l’oneroso compito di trainare un intero paese (dalla sanità, alla GDO, passando per le imprese che si occupano di medical devices).

Questo processo è avvenuto attraverso l’applicazione di due parole che fino al 22 febbraio - vigilia delle prime chiusure in Italia settentrionale – erano quasi un tabu: Smart Working.

Erano anni che si discuteva e ci si domandava: lavoro agile, sì o no?

Davanti l’emergenza santiaria, la pandemia, i morti e una situazione incerta non poteva che essere un sì pieno, consapevole, sicuramente rischioso, ma tuttavia necessario a contribuire al fatto che l’Italia del lavoro non si fermasse completamente, che in qualche modo andasse avanti e continuasse ad assicurare dei servizi in qualche modo imprescindibili, senza naturalmente tener conto dell’enorme lavoro e della sfida a cui la sanità e tutto il personale che la compone sta affrontando in questi difficili giornate.

La situazione odierna ha così imposto un ripensamento radicale del lavoro agile, o smart working¸ che si sta mettendo alla prova su un banco decisivo. Se fino a ieri le aziende in questione già applicavano la formula del lavoro da casa ma in maniera meno incisiva, occasionale, in qualche modo nella forma di un sistema premiante (si parla nei casi più virtuosi in tal senso di un giorno a settimana, oppure uno ogni due), oggi sono costrette a sperimentarlo all day long, dal lunedì al venerdì.

Una trasformazione che ha visto coinvolto anche il pubblico, dei quali si è fatta ambassador la CDP (Cassa depositi e prestiti) che prima dell’emergenza applicava lo smart working una volta a settimana per circa 100 dipendenti e che a seguito del lockdown imposto dalle autorità si è veduta costretta a garantire lo stesso strumento per il 100% dei dipendenti (parliamo di circa 2000) persone, come emerge dalle parole di Maurizio Di Fonzo, chief people and organization, ai microfoni del Sole 24 Ore.

Quello della CDP tuttavia è solo uno degli esempi delle centinaia di aziende pubbliche e private che stanno applicando il controverso paradigma del lavoro da casa. Ai settori già citati si aggiungono naturalmente quello informatico, quello dell’istruzione, l’attività giornalistica che in questi giorni partecipano alle conferenze stampa indette dal Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte.

Tuttavia, questi aspetti per quanto utili in questa situazione diverranno motivo di dibattito per quasi tutto il mercato del lavoro, una volta che l’emergenza sarà rientrata definitivamente. Bisognerà fare i conti con una situazione che ha in qualche modo sdoganato e reso possibile quello che fino a qualche mese prima non era nemmeno pensabile.

Lo smart working ha assunto un’accezione negativa, assumendo spesso l’aspetto di una giornata di ferie piuttosto che di un modo di lavorare alternativo a quello “classico” fondato su leggi e meccanismi che oggi risultano, se non obsoleti, sicuramente vecchi (basti pensare che lo statuto dei lavoratori è stato firmato circa cinquant’anni fa!).

Se questa formula si rivelasse efficace, non solo in termini di fattibilità - come di fatto già lo è - ma di sostenibilità, ovvero in termini di incassi, questa emergenza sanitaria avrà almeno il merito di aver introdotto una novità assoluta, mettendo le aziende e il mercato del lavoro davanti a un fatto ineluttabile: la fiducia fra lavoratori e datori di lavoro non è una chimera irrealizzabile.

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