Sul mestiere di scrivere

Sul mestiere di scrivere

Nei giorni scorsi sono stato colpito da un’intervista a Ernesto Franco, direttore editoriale di Giulio Einaudi editore, curatore della celebre collana gli Struzzi. Intervistato da Simonetta Fiori su Repubblica, Franco fa tre affermazioni di mio interesse. La prima, che esistono dei libri essenziali. Libri cioè che “non cedono alle comodità del conosciuto”, che creano delle cose e al contempo creano lo spazio in cui queste cose possano esistere. E riporta alcuni esempi. Rispondendo alla domanda sul cambiamento più forte con cui si è dovuto confrontare negli ultimi anni, Franco risponde: le serie tv. Che pure hanno contribuito a elevare la consapevolezza di un pubblico oggi capace di affrontare “complesse macchine narrative”. Terza cosa, una riflessione desunta da Miseria e splendore delle traduzioni di Ortega y Gasset, laddove il filosofo spagnolo afferma che una caratteristica dell’agire umano sta nella parziale irrealizzabilità delle cose che facciamo. Da cui un tratto utopico e irraggiungibile che accomuna le nostre esistenze.


Parto da quest’ultima considerazione. Tra i 20 e i 30 anni una larga parte del mio tempo è stato assorbito da cause di natura sociale e politica, ragione per cui visto con occhi e toccato con mano l’irraggiungibilità delle cose. Ricordo bene il pensiero “grazie a me le cose cambieranno” che accompagnava il buttarsi anima e corpo in una nuova battaglia. Le cose però non cambiavano, quasi mai. Il corso della storia procedeva imperturbabile, indifferente ai nostri sforzi. Lascia perdere che chi combatte e poi perde non è mai uno sconfitto, come scrive Giuseppe Cederna, il senso di vuoto che avverti quando abbandoni il campo di battaglia si fa sentire, eccome. Ne valeva la pena? Visto a distanza di diversi anni, sì. Allora prelvalse l’amarezza di battaglie perse.


Il mio mestiere è scrivere. Meglio, scrivo per altri che utilizzeranno le mie parole. I miei clienti acquistano un vantaggio dalle mie parole, sia esso economico o un vantaggio di immagine del brand. È un mestiere che cammina sul filo sottile che separa il racconto “essenziale” destinato a creare spazi nuovi, di cui Franco, da una narrazione esplicitamente commerciale. Sia chiaro, nulla di più distante da me dal rifuggire il linguaggio della pubblicità, che anzi amo, e che, direbbe Giuseppe Mazza, è il più universale e democratico perché capace di parlare a tutti i pubblici. Eppure scrivendo ti accorgi di un limite intrinseco, di una dimensione di scrittura che in un certo senso è sempre imperfetta, di uno scrivere che (forse) non imparerai mai.


La tensione che attraversa me e i miei colleghi scrittori e copywriter è nutrire la scrittura. Nurturing, dicono gli inglesi. Una questione complessa, quella del nutrimento. Alcuni amici e colleghi sostengono che abbondanti iniezioni di lettura conducono a scrivere meglio, e in fondo credo abbiano ragione. Alterno romanzi e saggi a graphic novel e riviste, per spaziare tra varie dimensioni del linguaggio, sperando di succhiare nuove idee, nuove parole, nuove concettualizzazioni. E queste mi serviranno per nuovi testi che andrò a scrivere. La fatica del concetto, diceva Hegel. Qualcosa che va ben oltre la sperimentazione, lo scardinare vecchie regole, l’imparare dai propri errori, la curiosità e il talento.

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