Turnover intention: andarsene o scegliere di restare

Turnover intention: andarsene o scegliere di restare

Negli ultimi tempi Great Resignation e Quite Quitting rappresentano tematiche attuali nel mondo del lavoro. Veri e propri fenomeni sociali che stanno interessando milioni di lavoratori in tutto il mondo. Diventa, tuttavia, necessario fare un passo indietro ed analizzare un fenomeno organizzativo che esiste da sempre: il turnover. Questo termina definisce l'intenzione di un lavoratore/lavoratrice di lasciare l'organizzazione per intraprendere nuovi percorsi lavorativi. Nel caso del turnover, però, le motivazione al cambiamento non sono dettate da motivazioni positive o da aspirazioni personali: la persona vuole lasciare il proprio posto di lavoro perché sta riscontrando delle problematiche - di diversa natura - all'interno del proprio contesto lavorativo. Per capirci: non è un "me ne voglio andare perché dall'altra parte mi hanno offerto di meglio" ma più un "me ne voglio andare perché non ce la faccio più stare qui". La differenza, talvolta, può essere labile ed i fattori che concorrono alla generazione di questo fenomeno sono di diverse tipologie. Comprendere cosa significa e cosa comporta per un'organizzazione è il primo passo per arginare e tentare di ridurre questo fenomeno.

Il turnover per le organizzazioni rappresenta un costo

Chi meglio di chi lavora nelle #risorseumane può capire questo titolo? Il turnover dei dipendenti rappresenta una vera e propria perdita di capitale umano. Ogni nuovo inserimento ha un costo in termini di denaro, tempo e formazione; se da una parte perdiamo una persona che per mesi/anni è stata formata, dall'altra abbiamo l'ulteriore costo di tentare di rimpiazzarla al meglio investendo altrettante risorse. Cercare, poi, una nuova figura da inserire rappresenta un ulteriore costo per le aziende. Se questi sono costi più "tangibili", ne esistono anche altri "nascosti", come la perdita di know-how portata dalla persona che se n'è andata, il morale depresso all'interno del team e le difficoltà ad una celere riorganizzazione. Per parlare di turnover, però, non è sufficiente che sporadicamente qualche risorsa se ne vada. Questo, in un certo senso, può anche essere considerato fisiologico poiché non sempre siamo fatti per tutti i posti di lavoro. Si parla di turnover quando vi è una vera e propria tendenza, quando questo modus operandi è ricorrente e le motivazioni non sono dettate solo da un mercato del lavoro in forte fermento. Per ogni nuova persona inserita, due sono in uscita e questo crea non poche difficoltà all'azienda.

Perché si manifesta il turnover?

Prendiamo ora, come esempio, la fast food industry, dove il tasso di turnover ha molto spesso una percentuale elevata rispetto ad altri settori. Qui incontriamo diverse variabili che concorrono a generare questo fenomeno: salari generalmente bassi, ridotta autonomia lavorativa, scarsa formazione, scarse opportunità di crescita, scarso supporto da parte del management. Per lavorare in un fast food, essendo quasi tutto automatizzato, non servono particolari competenze: il lavoro è estremamente ripetitivo e difficilmente può avvenire una crescita professionale. In queste condizioni è difficile restare e il ricambio di "manodopera" è continuo. Il turnover si manifesta, quindi, come una risposta ad una condizione lavorativa percepita come avversa. Tuttavia non esiste una cornice standard in cui inquadrare questo fenomeno; potenzialmente potrebbe manifestarsi in qualsiasi contesto lavorativo. Ciò che le organizzazioni possono fare è cogliere i segnali in anticipo e lavorare per arginarlo. E questa tipologia di analisi e di intervento va di pari passo con quella che è la retention della workforce.

Contratto psicologico: uno spartiacque tra turnover e retention

Quando si inizia un lavoro si firma quello che viene definito contratto giuridico, che disciplina il rapporto di lavoro, il compenso, orari, diritti e doveri. Tuttavia, iniziare un lavoro, entrare in una nuova organizzazione, si configura anche in un'altra dimensione, tacita ed informale ma egualmente importante. È quello che viene definito contratto psicologico: la percezione individuale che un dipendente ha di obblighi ed aspettative nei suoi confronti. Questa percezione, però, non è unilaterale, bensì reciproca. Il contratto psicologico va a colmare quello che potrebbe essere percepito come "vuoto normativo", regolando l'interazione fra dipendente ed organizzazione. Concetti come fiducia, lealtà, ma anche aspettativa e crescita sono inscritti in questa tipologia di contratto. Quando, però, si verifica una rottura di questo contratto - ovvero quando l'organizzazione fallisce nell'adempiere i propri i propri obblighi nei confronti del dipendente - o una vera e propria violazione del contratto, può anche verificarsi un allontanamento volontario da parte del lavoratore. In contesti di incertezza lavorativa come quelli attuali, quindi, il contratto psicologico diventa di primaria importanza come quello giuridico. Costruire un rapporto di fiducia, mantenere le aspettative, investire sulle risorse umane adottando un approccio listening is caring può fare la differenza all'interno di un contesto organizzativo e permette una miglior retention.

Arginare il turnover passa da buona gestione delle risorse umane

C'è una frase di Andrew Carnegie - imprenditore dei primi del '900 - molto bella: "Take away my factories, my plants; take away my railroads, my ships, my transportation, take away my money; strip me of all of these but leave me my key employees, and in two or three years, I will have them all again”. Nel contrastare questo fenomeno è sulle risorse umane, sulle persone, che deve essere mantenuto alto il focus. Tutte le tecniche di HR Management lasciano il tempo che trovano se applicate meccanicamente all'interno delle organizzazioni. Non esiste una formula magica per contrastare il turnover, ma esiste il buon senso di capire che le persone dovrebbero essere messe al centro e fare di tutto per non lasciarsele scappare perché rappresentano un asset vitale per le organizzazioni stesse. Una corretta gestione delle risorse umane passa dall'ascolto della workforce, dal captare tutti quei segnali che potrebbero portare una persona ad allontanarsi o a non sposare più la vision aziendale. Occorre domandarsi perché e quali possono essere le cause e l'interlocutore diretto deve essere il personale. Il supporto del management, il supporto organizzativo, il riconoscimento professionale, un buon clima, la formazione valgono quanto un aumento del salario, che rappresenta una variabile importante e non trascurabile ma non un fattore primario della retention. L'obiettivo delle aziende, per concludere, dovrebbe essere quello di fare di tutto per mantenere in forza i propri dipendenti e per non lasciarseli scappare; drizzare le antenne, spesso, può fare la differenza.

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