"UGUALE PER TUTTI"? Ma de che?
Si fonda su di una logica difettosa: ecco perché La Legge NON E' uguale per tutti
ARISTOTELE & Friends - Fino agli anni Trenta del Novecento, la logica era intesa per quella di scuola aristotelica. Essa si fondava sul cosiddetto "principio del terzo escluso", secondo cui un asserto può essere soltanto Vero o Falso, senza eccezioni di sorta. L'assunto portava a paradossi quali quello del mentitore, enunciato da Epimenide [filosofo - Cnosso - VIII - VII secolo a.C.], che detta: "Se affermo che sono un bugiardo, sto mentendo o dico la verità?". Il vulnus eccolo: non si ammette che un bugiardo possa mai avere una crisi di coscienza, confessando.
VERO E' CHE LA VERITA' NON ESISTE - Si deve a eminenti matematici del primo Novecento - Gödel, Tarski, Turing... - l'atto di coraggio del superare simili problemi. Fatto fondamentale è in questo: la verità di un enunciato non dipende dal linguaggio, ma da meccanismi superiori - esterni - che, del linguaggio, fondano la consistenza - si parla perciò di "metalinguaggio" -. Così, c'è differenza tra ciò che è vero (per esempio, nel diritto naturale) e ciò che è dimostrabile, perché dedotto nel contesto e sotto le regole di un certo linguaggio. Facciamo un esempio; scrivo MORE:
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Il fatto che chi parla sia italiano, inglese o antico romano determina il vero significato della parola "more". Vale solo un poco la pena di notare che nemmeno il diritto naturale, assurto ad assioma supremo della civiltà, ha, in realtà, carattere assoluto, stando che la consuetudine è tra le fonti di quel diritto. Per un cannibale dei paesi tropicali è perfino etico mangiarsi qualcun altro... Detto questo, è grazie al corpo di meccanismi adduttivo-deduttivi che presiedono al metalinguaggio - detti, nel loro complesso, "metalogica" - che, per esempio, ridiamo di una battuta quale: "Sono così pigro che ho sposato una donna incinta!".
NON CI POSSONO ESSERE DUE VINCITORI! - Ecco, dunque: il diritto si fonda sulla logica aristotelica, ignorando i progressi capitali del pensiero scientifico in tal senso. La giurisprudenza vede, allora, fronteggiarsi due parti animate, ciascuna, da un imperativo categorico: vincere la causa. E' ben noto che il testa a testa fra imperativi categorici in contrasto non può trovare alcuna soluzione. Non di rado, quindi, ci si accorda, atteso che una delle due parti, quella che è nel giusto, ci rimette di più. Dovrebbe valere un'altra lezione preclara, provata dal matematico americano John Nash: ognuno rinunci a qualcosa per giungere ad una soluzione equanime, a dirsi davvero soddisfacente. Nel diritto non succede troppo spesso, specie se il colpevole in tutta evidenza è parte dello Stato che dovrebbe condannarlo in difesa delle Istituzioni. Ecco perché la riforma Cartabia doveva passare.