Umano, non Umano

Umano, non Umano

La Grande Bilancia e la supremazia dell'algoritmo. Racconto che inizia da lontano. Dunque, ai tempi delle caverne, l'uomo era impegnato sostanzialmente a sopravvivere. Il 99,99% del tempo si dedicava a cercare cibo, a difendersi dai nemici, a dormire e procreare. Solo lo 0,001%, oltre a darsi da fare come gli altri uomini, altrimenti non mangiava, impiegava però una parte del proprio tempo, sottraendolo alla mera sopravvivenza, nel disegnare la sua vita sulle pareti della caverna con un pezzo di carbone o di argilla. Sono i graffiti arrivati fino a noi. Quei segni essenziali ci raccontano la spartana esistenza dei nostri progenitori, e dei loro compagni di vita: gli animali, i grandi animali della preistoria, i mammut, le tigri coi denti a sciabola. E ci raccontano anche qualcosa delle loro abitudini, cosa temevano, cosa amavano. Ecco, quello 0,001% accostava al fare per sopravvivere, anche il pensare, il ricordare, il sognare, forse. Anche gli altri, i suoi compagni, sognavano, ma lui, il pittore, sentiva la necessità di raccontarlo, di lasciarne traccia. L'azione e il pensiero. Poi, nei millenni, e nei secoli, la parte di pensiero, di fantasia, di interrogativi, nell'evoluzione umana si è sempre più ampliata. I graffiti sono diventati scrittura e pittura, poi letteratura, quadri, affreschi, poi teatro, architettura, telefono, cinema, televisione, internet, realtà virtuale... Se ci guardiamo indietro, e idealmente creiamo una grande bilancia con due immensi piatti su cui posare di qua l'atto, il comportamento, e di là il pensiero, vediamo che, all'inizio, tutto o quasi il peso che definisce la saga umana confluisce sul piatto del Fare. Fare con le mani qualcosa di essenziale alla sopravvivenza. La caccia, la pesca, la resistenza nei confronti del nemico, in parte e solo dopo, anche l'agricoltura. Sull'altro piatto ci sono solo quei graffiti, tutti neri prima, poi neri e rossi (il pensiero si evolve, tracima, insieme alla fantasia e cerca colori nuovi). E quei graffiti all'inizio sono essenziali, semplici segni quasi prepicassiani, che poi nel tempo diventano sempre più complessi, fino a rappresentare storie di uomini e vita. Poi, pian piano, l'uomo scopre la scrittura, la comunicazione. Il rappresentare con parole scritte il pensiero, è il grande passaggio dalla Preistoria alla Storia. Un salto epocale, fatto dai nostri avi, di cui, da quel momento, cominciamo a sapere quello che con infinita pazienza ci hanno voluto lasciare in ricordo di sé, e in insegnamento. E con la scrittura, arrivano i racconti, le tavolette assire, l'elenco dei fornitori del birraio di Babilonia, la stele di Rosetta, il voler ragionare sulle azioni umane, il volerle raccontare, su pietra, su papiro, su pergamena. Molti uomini lasciano il Fare per diventare custodi del Sapere. Scrivono, illustrano, raccolgono, insegnano, tramandano. Il piatto della bilancia del Pensiero comincia a riempirsi tanto, e pian piano scende, sotto quel peso straordinariamente bello e complesso, e comincia ad allinearsi con quello del Fare. E poi il tempo porta altri travasi, altri vasi comunicanti, con una sorta di fuga lenta ma inesorabile dal piatto della bilancia del Fare verso quello del Pensare. I mestieri duri si abbandonano, possono essere fatti da macchine, l'agricoltura, le fabbriche, persino la procreazione può essere extracorporea. Si parla di clonazione. E addirittura si teorizza l'imperfezione strettamente connaturata alla natura fisica dell'uomo, così organicamente instabile, così incontrollabilmente mutevole da potersi considerare un potenziale ostacolo al progresso scientifico, tecnico e tecnologico. Ciò che è tangibile è caduco, a cominciare dal corpo umano. Dall'uomo stesso. E quando arriva la grande invenzione del digitale si scopre che quasi tutto può essere pensato e realizzato da incorporei algoritmi che narrano vite, teoremi, che creano regole, impongono stili di comportamento, fuori da quasi ogni fisicità. Illusoriamente per "migliorare" l'imperfezione umana, inquadrarla in una struttura ordinata, dai percorsi prevedibili. Il piatto della bilancia del Pensiero è ora pesantissimo, tutto converge lì. Sul piatto del semplice Fare resta poco. Pochi esseri umani (di più non ne occorrono) si occupano ancora di attività manuali che sopperiscono ai brutali strascichi del carnale e imperfetto passato umano, come per esempio quell'arcaico e fastidioso bisogno chiamato cibo, alla cui penuria si supplisce con interessanti teorie come l'auspicabile contrazione numerica dei caotici bipedi, o con rimedi come la carne sintetica o gli insetti; tutte brillanti trovate frutto del Pensiero Ordinatore del Tutto, elaborato da ciò che occupa il piatto pesante della bilancia. La Grande Bilancia dell'esistenza. Per vivere bene i due piatti dovrebbero essere in equilibrio. Ma oggi molto del Pensiero è sottratto all'uomo e consegnato a sistemi matematici che travalicano la semplice essenza del piccolo, fragile, caotico e imprevedibile essere umano. La carne, la vita stessa, è debole, imperfetta e peritura; l'algoritmo invece è esatto, intangibile, eterno. Intrinsecamente vincitore di ogni concetto di evoluzione. A tal proposito, vale la pena rileggere tutto, o almeno alcune righe, dello straordinario racconto predittivo "Nove volte sette" di I. Asimov, scritto nel 1958: "Sembra che un tempo i computer venissero progettati e disegnati direttamente dagli esseri umani... prima che si fosse affermato il principio di affidare ai computer stessi la progettazione di computer ancor più perfezionati".

Riequilibriamo la bilancia, è meglio.

Carla Vistarini



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