Un altro po’ insieme

Un altro po’ insieme

Quando arrivarono al passaggio a livello, il segnale rosso iniziò a lampeggiare. Il padre sospirò piano, come se quel treno lontano stesse succhiando via la sua pazienza. Era una di quelle sere tranquille di primavera, quando l’aria sembra galleggiare sospesa e la città appare più piccola, quasi a misura d’uomo.

La station wagon era ferma al centro della strada, i fari accesi illuminavano le sbarre bianche e rosse che si abbassavano con un movimento ipnotico. Il padre tamburellava le dita sul volante, un ritmo senza melodia che risuonava nell’abitacolo.

“Papà,” disse il bambino più grande dal sedile posteriore, “quanto ci mette questo treno a passare?”

Il padre si voltò leggermente. “Un po’. I treni vanno piano quando devono rallentare.”

La voce del bambino aveva qualcosa di familiare, ma anche di distante, come un sogno che non riesci mai a ricordare del tutto.

Quella sera avevano mangiato la pizza in un ristorante di periferia. Non era un posto memorabile: tavoli traballanti, tovaglie di plastica, una fila di luci al neon appese al soffitto che ronzavano appena. Eppure, ogni volta che ci andavano, sembrava che il tempo si piegasse, come un vecchio orologio che improvvisamente decide di rallentare i suoi ticchettii.

“Papà, torniamo sabato prossimo?” chiese il più piccolo. Aveva un filo di mozzarella ancora appiccicato alla guancia.

“Se volete, ci torniamo,” rispose il padre. La madre sorrise piano, fissando il buio fuori dal finestrino.

“Sì! Per sempre!” esclamò il bambino. “Tutti i sabati, sempre!”

Il padre rise. Era un suono basso, quasi come un motore che si avvia. Poi guardò la moglie, e il loro sguardo si incrociò per un attimo. Non dissero nulla, ma qualcosa passò tra di loro, come una corrente d’aria.

“Un giorno sarete grandi,” disse il padre, rivolgendosi ai bambini. “E probabilmente il sabato sera vorrete uscire con i vostri amici, andare in discoteca, o magari vedere un film.”

“No!” rispose il più grande. “Io voglio stare con voi! Anche a cento anni!”

Il padre restò in silenzio, guardando avanti, verso le luci intermittenti. Per qualche motivo, il tempo sembrava essersi fermato davvero. C’era qualcosa di poetico in quella pausa, in quel treno che si faceva aspettare, come se la vita gli avesse dato un momento per pensare, o per sentirsi leggermente fuori tempo.

“Papà,” disse il più piccolo, “stiamo un altro po’ insieme.”

Il padre si voltò di nuovo. Gli occhi del bambino brillavano nella penombra. Non era sicuro di cosa volesse dire esattamente, ma le parole gli si piantarono dentro, come un chiodo nel legno.

Il treno passò lentamente, una scia di luci che sembrava infinita. Quando le sbarre si alzarono, il padre non aveva più fretta. Mise la macchina in moto, ma guidò piano, lasciando che il buio si addensasse intorno a loro.

Da quella sera, ogni volta che arrivavano a quel passaggio a livello, il padre rallentava, quasi sperando di trovare le sbarre abbassate. Era un gesto semplice, ma anche un modo per dire qualcosa che non sapeva mettere in parole.

“Vai piano, treno,” pensava. “Dacci un altro po’ di tempo.”

Sensibilità lieve e dinamica fievole, per una narrazione scorrevole, e un'amalgama piacevole. Uno di quei racconti che ti fa dimenticare la frenesia da lettura informatica, per farsi cogliere in ogni parola e in ogni connessione. E alla fine resta una carezza, un filo di serenità e un aroma appena accennato di calore.

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