Into the wild: in viaggio nella pandemia

Into the wild: in viaggio nella pandemia

(Prima stazione).

Per gli italiani il viaggio nella pandemia cominciò durante il carnevale del 2020 con una tipica manifestazione di dissonanza cognitiva. Il paziente zero era già stato scoperto da un mese a Codugno e in Lombardia e in tutto il nord Italia si moltiplicavano quelle che non venivano più diagnosticate “polmoniti atipiche” ma infezioni da covid sars 19. Le giornate però erano bellissime, da primavera avanzata e così molti partirono per la settimana bianca, mentre altri continuarono ad affollare feste e discoteche. Solo i più ansiosi si recarono in farmacia alla ricerca di dispositivi protettivi e, non trovandoli, andarono dai negozianti cinesi che, si sa, hanno sempre tutto. Furono avviati agli scaffali pieni di maschere da Pulcinella, Uomo Ragno e Sirenetta e dovettero spiegare che no, cercavano altro. Solo dieci giorni dopo si scatenò il panico: i poveri cinesi dovettero abbassare le saracinesche per paura di essere bruciati sulla pubblica piazza come untori; i supermercati furono presi d’assalto, le televisioni rimanevano accese tutto il giorno, in strada si camminava a zig-zag cercando di evitare chi ti veniva incontro e si copriva il naso con le mascherine di carta dei muratori, le sciarpe, i fazzoletti, il collo alto dei maglioni. Alcune notizie erano terrificanti: in Inghilterra il premier Johnson aveva dichiarato che ogni famiglia doveva prepararsi a perdere uno dei propri cari. Altre notizie, invece, erano consolatorie: si trattava solo di una banale influenza. Attraverso i talk show scoprimmo che esistevano i virologi, strane figure emerse dal buio di anonimi laboratori: scioccati dalla luce cominciarono a darsi botte da orbi, tra lo sgomento dei presenti. Sentenziarono che le mascherine non servivano a proteggersi ma era solo perché le scorte erano finite, insieme ai guanti e all’alcool. I medici cinesi, russi e cubani venuti a darci manforte se le mettevano eccome e sanificavano persino le scarpe prima di entrare in albergo. Cominciammo a nutrire dei dubbi su ciò che ci veniva propinato anche se ci lavavamo le mani forsennatamente cercando di imitare le mosse da prestigiatore del personale ospedaliero.

(Seconda stazione)

Sui nostri schermi comparvero i malati: attaccati alle cannule dell’ossigeno, intubati a faccia in giù in loculi che ricordavano quelli dei film di fantascienza. Erano accompagnati da figure altrettanto aliene: la faccia coperta da mascherine, occhiali e visiere, il corpo infagottato in tute protettive. Scoprimmo che le nostre dottoresse e infermiere avevano occhi meravigliosamente belli. Ma la signora con la falce e il cappuccio entrò in molte case: si allungarono le file delle ambulanze fuori dagli ospedali in attesa che si liberasse un letto e quelle delle macchine ai drive in per il tampone; persino quelle delle bare nei depositi e dei camion per trasferirle in cimiteri lontani. Come potevamo difenderci? Il virus era un nemico invisibile uscito dal corpo di un pipistrello e inghiottito da un uomo in un mercato cinese. O era un cinese mangiato da un pipistrello in un laboratorio vicino al mercato? O piuttosto erano i dissennatori, tracimati dai film di Harry Potter, che stavano risucchiando la nostra mente? Assistevamo al bollettino quotidiano, ipnotizzati dalle cifre, in preda a una sofferenza sorda. Non era possibile! Era tutto vero quello che ci stava capitando o stavamo sognando?    Dissero che bisognava proteggere gli ospedali dal sovraffollamento ma non che una politica miope e infingarda aveva ignorato gli allarmi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’arrivo di nuove pandemie e aveva smantellato i reparti e i posti letto, insieme con la medicina di prossimità, favorendo le cliniche private. Gli anestesisti scrivevano sul profilo Facebook che dovevano scegliere chi far vivere e chi far morire perché le cure non erano sufficienti per tutti. Imparammo una nuova parola: lock-down e subito i treni furono presi d’assalto: gli studenti fuorisede lasciarono Milano per tornare al sud, i pensionati scapparono nelle seconde case sperando di sopravvivere isolati, come nel racconto di Edgar Allan Poe “La maschera della morte rossa”. Il virus ringraziò e si sparse per tutto il Paese. Poi fummo chiusi in casa. All’inizio, fu quasi una liberazione. Imparammo a cucinare, a chattare con amici e professori, facemmo scorpacciate di film on demand, mogli e mariti tornarono a fare l’amore visto che gli altri partner non erano disponibili. Uscimmo sui terrazzi per cantare e farci reciprocamente coraggio. Scoprimmo per la prima volta chi era quel vicino che non incontravamo mai e anche quello che viveva nella casa di fronte e aveva appeso alla finestra, l’una vicino all’altra, le bandiere della Roma e della Pace. Ma non durò molto e vennero i giorni dell’odio per i runners che spargevano il virus e per i padroni dei cani che avevano un pretesto per uscire. Tuttavia, chi tornava a casa la sera dal lavoro incontrava una città da “The day after”: deserta e buia, a parte i lampeggianti della polizia. Chi stava male psicologicamente peggiorò, anche se i fobici e i paranoici rivelarono ai loro dottori che, imprevedibilmente, si sentivano meglio: prima del lock down si consideravano matti, ora si sentivano parte di una comunità. Molti bambini scoprirono che i genitori esistevano veramente e non erano le controfigure di tate e insegnanti. E ne gioirono.

(Terza e quarta stazione)

Arrivo una tregua: sbocciò la primavera e poi l’estate. I malati calarono. Scoprimmo che si poteva viaggiare anche in Italia e che il nostro era un Paese meraviglioso, se solo avessimo smesso di distruggerlo e di lamentarci. Ma in autunno i casi risalirono e si ricominciò come prima. I politici erano allo sbando: qualcuno diceva che bisognava richiudere e buttare la chiave, altri che bisognava spalancare le porte e far circolare il virus liberamente. Nelle orecchie ci ronzarono quelle parole: immunità di gregge. E ci sentimmo corpi privati di un’anima, persi in un branco guidato da pastori incapaci. Volevamo vivere, non sopravvivere. Qualche medico provò a iniettare negli infetti il plasma dei guariti con buoni risultati ma fu esposto alla gogna mediatica e scomparve. Cominciammo a dividerci in fazioni che si guardavano con sospetto.

(Quinta stazione)

Arrivarono finalmente i vaccini e cominciò la grande corsa. Ci divisero per categorie: prima il personale sanitario, gli immunodepressi e i professori delle scuole. Ma si scatenò la furbizia italica: fra i medici si infilarono gli amministrativi della sanità, fra gli immunodepressi i cittadini con i falsi certificati. Cominciò a organizzarsi il movimento no vax. Ci vaccinammo quasi tutti ma con qualche riserva e infatti   Astrazeneca fu quasi subito ritirato dal mercato. Ci dissero che la seconda dose con un vaccino diverso sarebbe stata innocua per la salute e anzi ancora più idonea a contrastare il virus; in seguito, che dovevamo fare una terza dose a sei mesi di distanza dalla seconda, poi a cinque, a quattro o addirittura a tre. Ci vaccinammo ma con il sospetto recondito che stessero dando i numeri. Eravamo confusi, come se ci avessero detto che il latte della mamma era diventato velenoso. Di vaccini sui media mainstream si parlava tutto il giorno ma nessuno ebbe il coraggio di porre la domanda delle domande: perché il Governo di fronte alla riottosità di una parte della popolazione non rendeva il vaccino obbligatorio? Il decreto apposito sarebbe stato conforme all’emergenza sanitaria e al dettato costituzionale. Le risposte circolavano nei corridoi come pericoloso segreti di stato coperti da omissis: il Governo aveva cercato un compromesso fra i partiti che lo sostenevano; oppure non voleva essere costretto a rimborsare i cittadini colpiti da reazioni avverse, visto che le case farmaceutiche avevano inserito nel contratto una clausola che prevedeva la loro non imputabilità? I vaccini erano ancora un farmaco sperimentale, con ricerche epidemiologiche ancora limitate e controverse. Rivelarlo pubblicamente invece di usare l’ambigua formula “i benefici sono superiori ai rischi” avrebbe prodotto il caos in un popolo in preda al tarlo della diffidenza nei confronti di politici e amministratori già screditati ben prima che arrivasse la crisi pandemica. Ma la domanda non venne posta nemmeno dal composito popolo dei no vax: piuttosto che parlare dell’efficacia del vaccino preferirono attaccare il “marchio verde”, introdotto per limitare la vita di chi non aderiva alle prescrizioni. Era più comodo parlare della dittatura dello Stato, assediare i palazzi del Governo o dare l’assalto ai sindacati. Più facile affrontare il dilagante senso di impotenza pensando che qualcuno possedesse tutte le risposte e avesse il controllo sulla pandemia piuttosto che muoversi per tentativi ed errori come avrebbe fatto ciascuno di noi in situazioni così difficili. Nonostante il numero dei no vax fosse ormai diventato irrisorio i numeri degli infetti ripresero a crescere perché il vaccino (e il green pass) proteggeva i soggetti dalla malattia grave e dalla morte ma non rendeva immuni.  Arrivati alla sesta stazione ci dissero che il sistema immunitario non era un giocattolo e che se fosse stato sollecitato di continuo poteva indebolirsi o andare incontro a fenomeni di esaurimento…

#pandemia #coronavirus #guerra #novax #psicologia #pensiero positivo   



 

https://www.amazon.it/dp/8831924451/

Per visualizzare o aggiungere un commento, accedi

Altri articoli di Emilio Masina

  • Gli adolescenti che non vogliono usare l'ombrello

    Gli adolescenti che non vogliono usare l'ombrello

    L’offerta di un vaccino per fronteggiare il virus Sars Covid 19 ha consentito non solo di arginare la pandemia ma anche…

    3 commenti
  • Bonus psicologi?

    Bonus psicologi?

    Grazie a Felicia Pelagalli e all’Associazione Innovafiducia per aver permesso a me e all’onorevole Filippo Sensi di…

    2 commenti
  • Immersi in un mare di emozioni, in memoria di Renzo Carli

    Immersi in un mare di emozioni, in memoria di Renzo Carli

    Carli è stato un professore, un Maestro, il più prestigioso fondatore della Psicologia Clinica in Italia. Ha sviluppato…

    4 commenti
  • Afghana: La nascita e la guerra

    Afghana: La nascita e la guerra

    Un piccolo centro di maternità fra le montagne afghane gestito dalle infermiere del Paese e dalle volontarie di…

  • Intervista sul romanzo "La speranza che abbiamo di durare. Una storia di amore e psicoanalisi".

    Intervista sul romanzo "La speranza che abbiamo di durare. Una storia di amore e psicoanalisi".

    Grazie ai redattori di Recensione.it per la loro intervista 1.

  • Quello strano piacere di portare la mascherina

    Quello strano piacere di portare la mascherina

    Grazie alla giornalista Silvia Schirinzi per il suo articolo su Donna Moderna: è stata una bella collaborazione!…

    2 commenti
  • Jung e Sabina

    Jung e Sabina

    Quando Carl entrò dalla porta del piccolo appartamento nel centro di Zurigo, Sabina lanciò un grido di esultanza e gli…

    2 commenti
  • En travesti

    En travesti

    Con Giorgio, nove anni, avevamo concordato che invece di travestirsi a casa sua, dove veniva punito dai genitori e…

    2 commenti
  • Yoga e Psicoanalisi

    Yoga e Psicoanalisi

    “Quando andrai via, stanco di vedermi anche a costo di morire; No, non verserò una lacrima". Kim Sowol (poeta coreano)…

  • A una mamma

    A una mamma

    E’ certamente doloroso per una mamma che ha seguito amorevolmente una figlia fin dalla nascita vedersi chiudere la…

    2 commenti

Altre pagine consultate