Per un anno, migliaia di spot tv sono andati in onda declamando le virtù di un’acqua minerale leggera che aiuta a ringiovanire la pelle. Lo stesso messaggio era presente su decine di milioni di bottiglie. Anche la pubblicità di un integratore che riduce la cellulite ha seguito un analogo percorso. Poi tutto è finito perché l’Antitrust nel primo caso e l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP) nel secondo sono intervenuti chiedendo informazioni e/o invitando il professionista a rimuovere i profili di possibile illiceità. Tutto questo è avvenuto senza aprire formalmente un procedimento per pubblicità ingannevole o per pratiche commerciali scorrette. Si è trattato dei cosiddetti interventi di ‘moral suasion’ pre-istruttori, a seguito dei quali le aziende, per evitare rischi, accettano le critiche e correggono il tiro. Nel primo caso la famosa marca di acqua minerale ha modificato pubblicità ed etichette, mentre il produttore dell’integratore ha deciso di cambiare lo spot. Alla fine tutti sono contenti. L’Antitrust e l’IAP sono soddisfatti perché hanno fatto rispettare il principio secondo cui la pubblicità deve essere “onesta, veritiera e corretta” e gli spot sono cambiati o cessati. Anche le aziende sono tutto sommato soddisfatte. Tutto bene? Non proprio. L’unico soggetto penalizzato in questa vicenda è il consumatore che, non venendo mai a sapere che la pubblicità era in qualche modo ingannevole, continua a comprare i prodotti. Nell’immaginario degli ascoltatori resta in mente il messaggio della prima massiccia campagna. Questo vuol dire che l’azienda pur avendo agito in modo scorretto ha raggiunto ugualmente lo scopo. L’abilità sta poi nel riproporre qualche mese dopo uno spot simile mantenendo gli stessi attori, il medesimo motivetto musicale e modificando le frasi critiche. In questo modo il consumatore difficilmente coglie la novità e mantiene nel suo immaginario la convinzione errata sui prodotti ‘miracolosi’. Queste due vicende sono accadute all’insaputa di tutti, perché Antitrust e l’IAP normalmente non divulgano gli interventi di moral suasion e tantomeno le modifiche degli spot concordate per evitare l’avvio del procedimento. L’accordo di moral suasion infatti non è pubblico. Nessuno sa quante siano i procedimenti che si concludono in questo modo. Si tratta di un sistema che manifesta una mancanza di trasparenza nei confronti dei consumatori che hanno il diritto di sapere se e quando sono stati ingannati. Per questo abbiamo chiesto una modifica delle regole che allo stato attuale premiano le aziende, lasciando loro la possibilità di realizzare volutamente e impunemente spot ingannevoli. L'articolo di Roberto La Pira su #ilfattoalimentare https://lnkd.in/d-iPXBSv
Il Fatto Alimentare
Editoria: libri e pubblicazioni periodiche
Milan, Lombardy 6.873 follower
Quotidiano online indipendente che si occupa di sicurezza, etichette, nutrizione, analisi dei prodotti, prezzi, leggi…
Chi siamo
Il Fatto Alimentare è un quotidiano online indipendente che ha iniziato le pubblicazioni il 10 maggio 2010. Il sito pubblica articoli su tematiche alimentari riguardanti la sicurezza, le etichette, la nutrizione, le analisi dei prodotti e approfondimenti su prezzi, consumi, legislazione… La redazione è composta da giornalisti e i collaboratori sono esperti di vari settori (avvocati specializzati in diritto alimentare, nutrizionisti, docenti universitari, ricercatori del mondo scientifico…). Il sito non ha un editore e non ha mai ricevuto finanziamenti pubblici. Le donazioni dei lettori coprono una piccola ma significativa parte del budget, che attesta il forte legame tra redazione e lettori.
- Sito Web
-
https://ilfattoalimentare.it/
Link esterno per Il Fatto Alimentare
- Settore
- Editoria: libri e pubblicazioni periodiche
- Dimensioni dell’azienda
- 2-10 dipendenti
- Sede principale
- Milan, Lombardy
- Tipo
- Ditta individuale
- Data di fondazione
- 2010
- Settori di competenza
- sicurezza alimentare, Food, etichette, benessere animale, packaging, prezzi, consumi e food law
Località
-
Principale
Via Soperga, 18
Milan, Lombardy 20127, IT
Dipendenti presso Il Fatto Alimentare
Aggiornamenti
-
A Milano, nel gennaio 2021, un panino al bar costava 3 €. Adesso, a distanza di quattro anni, il prezzo è lievitato del 50% ed è arrivato a 4,5 €. I dati sono quelli dell’Osservatorio #prezzi e tariffe del Ministero delle Imprese e del Made in Italy e si riferiscono al prezzo minimo. Abbiamo scelto come riferimento il prezzo ‘minimo’ indicato dall’Osservatorio, perché le famiglie che faticano ad arrivare a fine mese fanno la spesa nei discount dove si spende meno. Per loro l’incremento dei listini minimi rappresenta un serio problema, perché non possono risparmiare scegliendo un prodotto meno costoso come fanno altri e l’aumento dei prezzi in ambito alimentare non è bilanciato da un adeguamento dello stipendio all’inflazione. Osservando la tabella si scoprono altri dati allarmanti. La pizza (Margherita) è passata da 6 a 8 €, con un incremento del 33% (questo importo non comprende il coperto e la bibita). Chi frequenta i fast food si può consolare, perché il pasto è passato da 6,2 a 7,2 € con una crescita del 16%. Il prezzo del caffè espresso è rimasto stabile a 1 euro, questo perché molti esercizi lo tengono basso per allettare la clientela. Un’operazione che spesso viene bilanciata dall’uso di una miscela di minor pregio. La situazione non cambia di molto per i listini minimi dei prodotti che abitualmente finiscono nel carrello della spesa. Questa volta il confronto riguarda i prezzi rilevati dall’Osservatorio nel settembre 2021 (non nel gennaio 2021 come i precedenti). Il caffè tostato è lievitato dell’80%. Una merendina preconfezionata costa il 55% in più, il fardello di 6 bottiglie da 1,5 litri di acqua minerale costava 0,74 € e adesso 0,94 con un balzo del 27%. Le uova (confezioni da 6 pezzi) sono rincarate del 40%. Il latte di alta qualità del 27%. Il vasetto di yogurt che costa meno è rincarato del 47% mentre lo zucchero del 21%. Il pane del 9%, la passata di pomodoro del 25% e, per fortuna, la pasta solo del 2,5%. L'articolo di Roberto La Pira su #ilfattoalimentare https://lnkd.in/gpGtHG97
-
Tre settimane fa ho saputo di una visita per giornalisti agli stabilimenti Maina organizzata da Unione Italiana Food (UIF), associazione di categoria che raggruppa oltre 500 aziende alimentari italiane. Ho chiesto UIF di partecipare, visto che Il Fatto Alimentare ogni anno pubblica una decina di articoli su panettoni e colombe, ma la richiesta non ha avuto esito positivo. L’associazione ha cercato di giustificarsi dicendo che, pur riconoscendo una certa autorevolezza al sito, seguito da diversi associati, “non c’è stato alcun intento discriminatorio, ma si è trattato solo di semplici motivi organizzativi”. Non è la prima volta che siamo esclusi per “motivi organizzativi”. In autunno, dopo aver saputo di una visita per giornalisti avvenuta in estate alle cucine di Esselunga, abbiamo chiesto alla catena di supermercati di essere invitati. Anche in questo caso la nostra richiesta è andata a vuoto. Qualcuno la chiama sfortuna, ma si può legittimamente pensare che si tratta di scelte per escludere giornalisti scomodi. In questo filone si inserisce anche la recente decisione di un’altra catena di supermercati di non firmare il contratto pubblicitario già definito con Il Fatto Alimentare, per un articolo sgradito pubblicato pochi giorni prima. Purtroppo non siamo di fronte a un caso isolato. La logica sottesa a questi comportamenti è sempre la stessa: ti do la pubblicità se non scrivi cose che mi mettono in cattiva luce, ti invito a un evento se fai un articolo che incensa la mia azienda e non mi critichi. Accettare questa logica, nel settore, ormai è la regola. Quello che una volta era un malcostume diffuso nel settore moda e bellezza, ora è consuetudine per buona parte delle testate a partire da La Repubblica e Corriere della Sera… Il fenomeno viene evidenziato con regolarità dalla newsletter Charlie del quotidiano online Il Post, che segnala quando, sui giornali, a fianco della pubblicità di un prodotto o di un’azienda appare un articolo che ne decanta le virtù. Nella redazione del Fatto Alimentare riusciamo a scrivere articoli e fare inchieste anche senza gli inviti e la pubblicità di aziende che pretendono una stampa al servizio del marketing. Questo è possibile perché selezioniamo inserzionisti che rispettano il nostro mestiere. Il grosso dispiacere è constatare che poche redazioni possono lavorare in questo modo. L'articolo di Roberto La Pira su #ilfattoalimentare https://lnkd.in/duBj8SMk
-
Slitta di sei mesi l’entrata in vigore degli obblighi previsti dalla legge contro la #shrinkflation, o #sgrammatura, la pratica di ridurre la quantità di prodotto lasciando il prezzo invariato. Secondo quanto rivela Altroconsumo, infatti, il decreto #Milleproproghe ha spostato l’applicazione dell’obbligo di indicare in etichetta un avviso sulla riduzione di peso al 1° ottobre 2025, per evitare all’Italia una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea. Nel dicembre 2024, il Senato aveva approvato in via definitiva il nuovo articolo 15-bis del Codice del consumo intitolato “Disposizioni in materia di riporzionamento dei prodotti preconfezionati”. La norma prevede di apporre sul prodotto oggetto di shrinkflation un’etichetta o un adesivo in cui si dichiara: “Questa confezione contiene un prodotto inferiore di X (unità di misura) rispetto alla precedente quantità”, peri sei mesi dalla prima messa in commercio del nuovo formato. Tuttavia, il Governo italiano, in fase di approvazione della legge, non avrebbe rispettato la cosiddetta ‘procedura Tris’, un insieme di regole da seguire quando si modificano le norme che possono restringere il mercato unico europeo. Inoltre, la versione notificata alla Commissione europea sarebbe diversa da quella approvata in Parlamento. Per questo l’Italia rischia la procedura d’infrazione, che il Governo spera di evitare con questa proroga. il spera di evitare una procedura di infrazione per mancato rispetto delle tempistiche di notifica. La Commissione Europea ora ha tempo fino all’8 aprile per dare un parere e chiedere eventuali modifiche della legge. L'articolo di Giulia Crepaldi su #ilfattoalimentare https://lnkd.in/dvDNtEwp
-
Lo scorso1° marzo, la Commissione Europea in una conferenza stampa ha fatto capire che il progetto di estendere il #NutriScore a livello comunitario è un argomento molto complesso e che, comunque, non è più all’ordine del giorno. Non esiste una dichiarazione ufficiale in cui se ne conferma l’abbandono, ma si lascia intendere che non sarà questa l’etichetta da adottare. In altre parole non sarà reso obbligatorio, e se ci sarà un nuovo sistema di etichettatura, ci vorranno anni per implementarlo, perché si dovranno rifare gli studi di efficacia da capo. Esultano in Italia le lobby di Coldiretti, il Governo, le aziende come Ferrero e tutte le forze contrarie al progetto, che sono riuscite a convincere la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen a rallentare l’adozione di un’etichetta che, secondo i programmi, sarebbe dovuta entrare in vigore obbligatoriamente prima della fine del 2022. Il ruolo del governo Italiano è stato determinante, tanto che il nostro Paese, per contrastare il Nutri-Score, ha varato un’etichetta alternativa, la #NutrInformBattery, talmente complessa da essere bocciata dai nutrizionisti e che praticamente nessuna aziende aziende usa. Ma il fatto che il Nutri-Score non sarà obbligatorio nell’UE non vuol dire che l’etichetta sia scomparsa o non abbia un futuro. I lobbisti italiani fanno finta di non sapere che il sistema a cinque lettere e cinque colori si usa già in 7 Paesi in Europa (Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Spagna e Svizzera) e che altri Paesi stanno pensando di adottarlo (per esempio, la Finlandia). Un altro concetto deve essere chiaro: in Italia il Nutri-Score non è vietato, e prodotti con l’etichetta a semaforo sono in vendita da catene di supermercati come Carrefour ed Esselunga, discount come Aldi e Lidl, e altre catene e negozi specializzati (alcuni esempi in questo articolo). Ci sono poi marchi come Mutti che lo usano all’estero. In Francia 1.450 marchi sono registrati presso Santé publique France come utilizzatrici del Nutri-Score: vuol dire che oltre il 60% dei prodotti alimentari in commercio oltralpe riporta il semaforo in etichetta. Leggi l'intevista di Roberto La Pira a serge hercberg professore dell’Università di Parigi 13 e padre del Nutri-Score su #ilfattoalimentare https://lnkd.in/dmj46bYm
-
McDonald’s ha lanciato la campagna SalvaEuro: per un mese (dal 19 febbraio al 18 marzo 2025) un menu composto da cheeseburger (o un burger di pollo), patatine e Coca-Cola costa 3,90 euro. Aggiungendo un euro gli hamburger nel panino raddoppiano (oppure si può scegliere tra altri due panini), mentre per il dolce o i nuggets di pollo il conto aumenta di 1,50 €. Si tratta di prezzi decisamente sottocosto, destinati a reclutare migliaia di nuovi clienti fra gli adolescenti, e non solo. Essendo complicato impedire a McDonald’s di effettuare promozioni che impattano su giovani e adolescenti, viene spontaneo chiedersi cosa si può fare per arginare questo reclutamento selvaggio. Il problema è serio, perché l’obesità incide in modo significativo sulla salute degli italiani e assorbe una fetta consistente della spesa sanitaria, per la stretta correlazione con svariate patologie. Diciamo che il problema dovrebbe essere in cima alle preoccupazioni delle istituzioni. Nella realtà il fronte istituzionale risulta totalmente sguarnito. Unica eccezione è forse la campagna Frutta nelle Scuole promossa con il contributo dell’Unione europea, che quest’anno dispone di 14 milioni di euro (erano 21 nel 2017/18). Il progetto coinvolge 500 mila alunni circa, che per un periodo di 2-3 mesi ricevono alcuni giorni alla settimana una merenda a base di frutta. Il progetto registra diverse criticità e sortisce un effetto molto debole rispetto all’enorme investimento. Il Paese della dieta mediterranea da anni ha dimenticato questo modello alimentare. L’Italia ha focalizzato l’attenzione e gli sforzi in ambito alimentare verso la promozione, la vendita e l’esportazione di prodotti made in Italy. Stiamo parlando di salumi, formaggi e vini che occupano poco spazio nella famosa piramide della dieta mediterranea. Al contrario, non è incentivato in nessuno modo il consumo di prodotti alla base del modello mediterraneo come frutta, verdura, pasta, pane, riso e cereali. Siamo un Paese senza un progetto per arginare sovrappeso e obesità, dove gli spot e le pubblicità di cibo spazzatura occupano la maggior parte degli spazi pubblicitari. In questa situazione nessuna istituzione pubblica sembra interessata a intervenire per correggere la rotta. In Italia manca un’agenzia per la sicurezza alimentare come quelle che esistono in quasi tutti i Paesi europei. Romano Prodi, nel 2008, aveva stanziato i fondi in bilancio per un’agenzia con sede a Foggia. Poi il governo Berlusconi li ha dirottati su altri progetti, mantenendo le competenze in materia di sicurezza ed educazione alimentare al Ministero della Salute e all’Istituto Superiore di Sanità. L’esito è un deserto, dove le regole sono quelle dell’industria alimentare e del libero mercato, con esiti disastrosi per i giovani, e non solo. L'articolo di Roberto La Pira su #ilfattoalimentare https://lnkd.in/dZnj2iUg
-
La nutrizionista americana Marion Nestle raccontava nel suo libro #FoodPolitics le difficoltà incontrate negli Stati Uniti nel pubblicare le Dietary Guidelines a causa delle ingerenze da parte dell’industria alimentare che mal vedeva alcune indicazioni degli scienziati che suggerivano di mangiare meno. Come funzionava il sistema? Gli scienziati americani dopo diversi anni di lavoro, rilasciavano un documento sintesi delle evidenze scientifiche su cui basare le nuove linee guida. Nella stesura finale delle Dietary Guidelines quindi interveniva la politica, influenzata dagli interessi dell’industria alimentare, eliminando le frasi in cui si diceva di “mangiare meno” determinati cibi per non danneggiare l’industria. L’industria alimentare cercò in tutti i modi di bloccare quella che sarebbe diventata un’icona nel campo della nutrizione mondiale, la piramide alimentare, che era il risultato di ben 11 anni di lavoro da parte degli scienziati. Cercarono di proporre altre immagini grafiche come per esempio la tazza, perché la piramide alimentare era troppo chiara. E un consumatore informato è un pericolo per una parte dell’industria alimentare che deve vendere alimenti poco salutari. Conflitto di interessi Marion Nestle spiegava che c’era un problema serio di conflitto di interessi insito nello USDA che aveva in sé un doppio mandato: 1) tutelare gli interessi dell’agrobusiness americano e 2) redigere le linee guida americane per una sana alimentazione. E le due cose spesso non coincidono. Anche in Italia il Ministero dell'Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste ha questa duplice funzione: 1) tutelare gli interessi dell’agrobusiness che comprende anche l’industria vitivinicola e 2) tutelare la salute degli italiani attraverso un suo ente, il CREA Ricerca cioè quello che un tempo era chiamato l’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione. I rappresentati del CREA-Alimenti e Nutrizione, collaborano con la SINU (Società Italiana di Nutrizione Umana) (1) per la produzione dei #LARN (Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana) e delle Linee Guida per una sana alimentazione (2). Quindi in Italia quando si tratta di parlare di alcol e vino il discorso può diventare problematico perché da un lato l’industria vitivinicola rappresenta una fetta importante dell’economia nazionale e dall’altro è necessario anche informare i cittadini sui rischi legati al consumo di vino, birra, superalcolici. Nei LARN 2024 il capitolo dedicato all’alcol è stato eliminato. L'articolo di Antonio Pratesi su #ilfattoalimentare https://lnkd.in/eaAekTdS
-
Nel 2024, dopo 10 anni dall’ultima edizione, la Società Italiana di Nutrizione Uman) ha pubblicato i nuovi #LARN2024 (Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana), che fanno seguito alla recente diffusione di numerosi nuovi documenti da parte di vari Paesi e agenzie internazionali come World Health Organization e European Food Safety Authority (EFSA). Pur mantenendo l’impostazione dei LARN 2014, la nuova revisione presenta una novità: è stato completamente cancellato il capitolo dedicato all’#alcol! I 10 esperti che si sono insediati nel 2020 su mandato del consiglio direttivo della SINU hanno liquidato il problema con questa frase: “È stato deciso invece di non prendere in considerazione l’etanolo (alcol), in quanto non rientrante nell’ambito dei nutrienti né nel gruppo dei composti bioattivi […] presenti negli alimenti con potenziali effetti salutistici e funzionali”. Nell’edizione dei LARN 1996 c’era uno spazio dedicato all’etanolo e anche i LARN 2014 hanno dedicato un capitolo intero molto chiaro ed esaustivo. L’etanolo è una potente sostanza psicoattiva, per la quale non è possibile individuare quantità ‘raccomandabili‘ ma nemmeno ‘ammissibili’ o sicure per la salute. L’OMS ribadisce infatti che non esiste un limite sotto il quale l’etanolo può essere consumato senza rischio e che il rischio aumenta con l’aumentare delle quantità assunte, indipendentemente dalla fonte. Per la prima volta dopo un quarto di secolo, quindi, si è scelto nei LARN italiani di ignorare il problema alcol. Queste sono scelte politiche (#foodpolicy) che hanno una ricaduta importante in termini culturali. Cui prodest? L'articolo integrale di Antonio Pratesi su #ilfattoalimentare https://lnkd.in/dqUuPf5z
-
A proposito dell’articolo sulla sostenibilità dell’allevamento del tonno, abbiamo ricevuto questa lettera di Roberto Mamone, esperto di formazione, progettazione, biologia della pesca e acquacoltura. Gentile Redazione, ho letto l’articolo sull’allevamento dei tonni e vorrei fare alcune precisazioni sull’uso del pesce foraggio. Una delle maggiori criticità dell’itticoltura intensiva, per la maggior parte delle specie allevate, è la dieta, basata per lo più su pesce foraggio (chiamato così perché destinato a diventare cibo per gli allevamenti di specie carnivore come salmone, tonno, orata, spigola, ecc..). Gli stock di questo pesce azzurro di piccola taglia sono spesso soggetti a una pressione di cattura insostenibile, soprattutto perché concentrata su alcune aree ormai sovrasfruttate. Questa criticità sconvolge equilibri ambientali, riduce drasticamente risorse alimentari importanti per le comunità costiere, e mette a rischio la sopravvivenza del settore. Per molte persone gli allevamenti di tonno sono i principali responsabili di questa sovrapesca, ma bisogna considerare sia l’alimentazione sia l’origine degli animali allevati per valutarne la sostenibilità rispetto ad altre specie. Anche per il tonno è iniziata la produzione di mangime ad hoc, migliorando il fattore di conversione e riducendo il ricorso al pesce fresco e/o congelato, ma la dieta si basa ancora quasi esclusivamente sul pesce foraggio. Questo non succede per i mangimi destinati ad altre specie, per il quali si utilizzano anche discrete percentuali di componenti di origine vegetale, farina d’insetti e scarti di altri allevamenti. Il ciclo vitale di tutti gli animali allevati è sempre molto più breve che in natura, e quindi in assoluto consumano meno alimento, nonostante sia reso molto più accessibile per accelerarne l’incremento ponderale. Nella fattispecie risulta quindi intuitivo che per ingrassare un tonno ci vuole meno pesce azzurro e cefalopodi di quanti ne consumerebbe nel corso della sua lunga vita in libertà (fino a 40 anni). Peraltro, a differenza dalle altre specie citate, può superare i 600 kg, per endotermia regola la temperatura con costosi processi metabolici, e compie dispendiose migrazioni di migliaia di chilometri, ad oltre 70 km/h, immergendosi fino a 900 m. Infine, diversamente dalle altre specie carnivore allevate (a parte l’anguilla), la riproduzione artificiale del tonno ancora non è stata perfezionata, per cui si ingrassano solo individui pescati sopra la taglia minima di 30 kg, e il numero complessivo dei pesci (allevati + liberi) non aumenta a causa degli allevamenti, mentre quello delle altre specie sì, generando una richiesta addizionale di pesce foraggio. La lettera su #ilfattoalimentare https://lnkd.in/dXKQsdUp
-
C’è un pesce, nel Mediterraneo, che più di altri incarna l’assurdità del sistema globale della pesca e delle acquacolture: il #tonnorosso. Perché il Mare Nostrum ne è pieno, di esemplari sia selvatici che, soprattutto, allevati, ma quasi tutto quello presente viene pescato, allevato e poi esportato soprattutto in Oriente (in Giappone, Cina e Corea del Sud) e negli Stati Uniti. Ai mercati dei Paesi europei viene proposto quasi esclusivamente quello a pinne gialle, considerato meno pregiato. E il sistema degli allevamenti, costituiti per far ingrassare i tonni rossi pescati molto velocemente, grazie e quantità enormi di pesci foraggio, per poi ucciderli e mandarli a migliaia di chilometri di distanza, sta diventando un problema per tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Di questa filiera “insostenibile” si sono occupati i giornalisti Marzio G. Mian, Nicola Scevola e Julia Amberger in un’inchiesta svolta in parte sul campo, soprattutto a Malta, con il supporto di Investigative Journalism for Europe e pubblicata sulla rivista Internazionale. Secondo quanto riferiscono gli autori, ogni anno nel Mediterraneo vengono pescate 35mila tonnellate di tonno rosso. Si tratta di esemplari giovani, che pesano attorno ai 150 chilogrammi e che, nella loro permanenza negli allevamenti, arrivano a pesarne 250, cioè aumentano del 70% in soli tre-quattro mesi. E infatti le tonnellate di tono rosso esportate sono nettamente superiori a quelle ufficialmente pescate: tra le 45 e le 50mila. L’ingrasso viene reso possibile da 134mila tonnellate annue di pesce foraggio, cioè pesce azzurro come sardine, acciughe, sgombri, spratti, aringhe che arriva sia dallo stesso mare (ai tonni rossi va un terzo di tutto il pesce azzurro pescato nel Mediterraneo) che, con ogni probabilità, dagli allevamenti ad hoc situati in diversi paesi, altra autentica piaga del sistema degli allevamenti ittici intensivi. Ogni anno nel Mediterraneo vengono pescate 35mila tonnellate di tonno rosso Il risultato è un impatto devastante: per ogni chilo di tonno rosso – questa la stima contenuta nell’articolo – occorrono 15 chilogrammi di pesce azzurro. Un valore decisamente più alto di quello di altri allevamenti come quelli di salmone che, di solito, sono attorno a un rapporto di uno a uno, o di poco superiore. L'articolo integrale di Agnese Codignola su #ilfattoalimentare https://lnkd.in/dE3WSkU3
Pagine simili
Sfoglia le offerte di lavoro
-
Offerte di lavoro per “Account manager”
-
Offerte di lavoro per “Analista”
-
Offerte di lavoro per “Risorse umane”
-
Offerte di lavoro per “Ricercatore”
-
Offerte di lavoro per “Insegnante”
-
Offerte di lavoro per “Marketing Manager”
-
Offerte di lavoro per “Nutrizionista”
-
Offerte di lavoro per “Tecnologo alimentare”
-
Offerte di lavoro per “Sviluppatore”
-
Offerte di lavoro per “Biologo”