ESTRANIAZIONE DELLO SGUARDO: RESPONSABILITÀ E COMPLOTTO
Foto di Tibor Janosi Mozes da Pixabay

ESTRANIAZIONE DELLO SGUARDO: RESPONSABILITÀ E COMPLOTTO

Il concetto di responsabilità viene comunemente letto come una acquisizione presente nella persona adulta, che spesso coincide con una serie di doveri ai quali rispondere, una funzione dunque acquisita attraverso la migliore gestione delle proprie abilità personali.

Ma può la responsabilità essere racchiusa nei parametri di questo orizzonte di senso? Può la pratica e l’esercizio di un compito, anche se svolti al meglio, conglobare il senso intero dell’esistenza?

E ancora, questa visione ripulita dalla complessità del concetto, spesso messa in crisi dagli eventi, quando incontra paradigmi fissi, può divenire un utile paravento all’esercizio scomodo di se stessi? Di fatto un certo pragmatismo ha permeato la visione  della realtà come un susseguirsi di elementi concreti, solo questi paiono contare all’interno di tale concezione.

“Il pragmatismo è la filosofia della politica efficace, quella dei risultati; incarna il rispetto per il successo e la fallibilità della scienza, l’impazienza nei confronti della metafisica, la passione per i casi concreti.”(M. P. Lynch, “La Verità e i suoi Nemici”)

In questo senso possiamo affermare che, nella visione pragmatica, è il modo in cui si esercita una funzione ai fini di un risultato ad essere fondamentale. La nostra cultura è fortemente intrisa di tale aspetto poiché dominata da una sfiducia verso le proprie risorse emotive e conseguentemente governata da parametri economici che pongono in secondo piano tutto ciò che non produce. Volgendo lo sguardo in modo più ampio, ci si accorge che ancora oggi resistono teorie di grandi congiure, presenti peraltro sullo scenario sociale da molto tempo, ma che nei momenti difficili  prendono forza e vigore in modo incontrollato. Ma cosa rende affascinanti tali visioni? Quale il fascino di un quadro a tinte fosche dove un gruppo nascosto domina il mondo e contribuisce a infondere l’idea di tendere ad un controllo assoluto dell’altrui psiche?

“Le teorie complottistiche globali risentono tutte dello stesso peccato originale: presumono che la storia sia molto semplice. La loro premessa di base è che manipolare il mondo sia cosa relativamente facile, e che un gruppo ristretto di persone possa riuscire a comprendere, prevedere e controllare tutto. […] Può capitare che una corporation, un partito politico o un dittatore riescano a radunare nelle proprie mani una parte significativa di tutti i poteri mondiali. Ma quando ciò accade è quasi impossibile che rimanga sotto silenzio. Il grande potere porta con se una grande visibilità.”(Y. Noah Arari, La Repubblica, 2 Gennaio 2021)

In termini più specifici, che attengono al funzionamento della psiche, potremmo valutare che un’idea, nel passaggio da una mente all’altra, viene in contatto inevitabilmente con le immagini interiori che provoca nei soggetti. Queste immagini hanno una loro intrinseca mobilità, vivono una vita propria collegata al modo di funzionare del soggetto, cercano una luce espansiva e non possono sottostare a teorie predeterminate che non consentono un’interpretazione individuale. Allora come spiegare un fenomeno di così ampia portata? Può la crisi di un processo di crescita evolutiva del Sé perdersi nel limbo di una funzione dominatrice dell’Io atta a finalizzare tutto nell’orizzonte dei bisogni tangibili? Sicuramente il rifarsi ad un bisogno concreto e fattivo abitua la mente a guardare in una specifica direzione proiettando fuori da se tutto ciò che non è di immediata comprensione, in questa veste il complotto, può racchiudere la difficoltà di venire a patti con le paure di una finitezza, nei confronti della quale le certezze logiche vacillano spalancando una voragine ansiogena che fatica ad essere inquadrata nella prospettiva di un sintomo come comunemente inteso. Lo slittamento della coscienza verso le sole ragioni pragmatiche crea una compensazione che si muove in una prospettiva precisa:

  • evitamento del dolore;
  • negazione dei conflitti interni;
  • disinteresse nei confronti dell’interiorità.

Questi aspetti alimentano dunque una distanza da se stessi creando un sostanziale allontanamento dai bisogni dell’individuo connessi alla maturazione e alla fiducia di se stessi. La responsabilità risulta un processo piuttosto faticoso da praticare. La massificazione sviluppatasi dentro la società verso una ricerca spasmodica di una pratica costante dell’ottenimento, fa si che la distanza da se stessi risulti alquanto normale quando i dati del disagio indicano altro.

“Quando uno stato mentale è il risultato di una situazione immutata e prolungata, potrebbe non essere più percepito come espressione di un modo di sentire.”(C. Bollas, “L’età dello smarrimento”)

Ne consegue che la responsabilità verso ciò che si prova risulti essere un dettaglio trascurabile, oscurato da automatismi volti ad auto rigenerarsi dando vita a forme di comportamento involutivo stabili dentro la nostra comunità. Comprendere che la via più semplice è sempre quella dell’affermazione nevrotica del Sé sbilancia e, al tempo stesso, apre le porte ad una gestione diversa della propria disperazione ripermettendo a tutto ciò che non parla dentro di noi, ma che si manifesta, di tornare ad avere una sua voce. Jung diceva che “i morti devono tornare a parlare”, indicando con questa frase la necessità per l’inconscio collettivo di poter elaborare ciò a cui non è stato dato un senso compiuto nella storia degli uomini. La pratica di una responsabilità come elemento educativo della propria interiorità può portare allo sviluppo di una capacità percettiva in grado di rafforzare il senso della vita umana, una pratica in grado di abituare la psiche all’attraversamento dello scomodo, dando vita allo sviluppo di capacità in grado di ridare un miglioramento etico alle proprie vite. L’etica presuppone un confronto con la realtà esterna che non può essere evitato. Attraverso lo scambio muta anche lo sguardo interno divenendo più capace di muoversi all’Interno della propria polarità costitutiva. Come sottolineava lo psicoanalista Aldo Carotenuto:

“Il vivere dell’uomo è fatto di ambivalenze e contrasti, e a essi dobbiamo guardare come agli elementi necessari alla nostra completezza di uomini”.

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