Il "buonismo" vincerà grazie al lavoro (sette passi verso l'abisso e ritorno)
Il bene alla fine trionfa sempre
Questa è stata la frase su cui tutta l'educazione di noi ex-giovani rampolli occidentali è stata incardinata. Questa è la morale ultima, la conclusione indubitabile, l'ineluttabile certezza che perlomeno per decenni ci è stata inculcata attraverso film, fiabe, canzoni, cartoni animati, esercizi, immagini, e chi più ne ha più ne metta: che la giustizia, la verità, l'amore, l'amicizia, la pace, la compassione possono venire meno per un po', ma alla fine ritornano e vincono. Sempre.
Interpellata a bruciapelo, sono certo che la stragrande maggioranza delle persone ripeterebbe ancora oggi questa certezza: che alla fine il "bene" vince sempre. Eppure, viviamo in un tempo in cui questa potrebbe essere l'ultima generazione che la pensa in questa maniera. Disprezzo per l'autorevolezza (ancora prima che per l'autorità), diffidenza se non vera paura per il diverso, avversione se non vero odio verso il debole e il povero... Sono sentimenti e atteggiamenti che non sono ancora apertamente palesi (almeno nella maggioranza delle persone), ma serpeggiano, si infiltrano nelle menti e nei cuori. Di più: sono stati "sdoganati", e rischiano seriamente di incrinare quel messaggio, quella certezza alla generazioni future.
Esagero? Forse. Ma i segnali, soprattutto in questi ultimi mesi, sono sconfortanti. Tra ingiurie social e non contro le ONG, barricate ideologiche violente contro temi di buon senso pratico come lo Ius Soli, odio oramai manifesto contro il povero o il migrante, pompieri che danno fuoco a foreste, ragazze non assunte perché fidanzate con nigeriani, la terza carica dello Stato quotidianamente oggetto delle ingiurie più irripetibili, trans cacciate da ristoranti, e in generale "post-verità" e complottismo in ogni dove, è come se il bene personale abbia definitivamente superato, nella percezione sociale, il bene collettivo. Come se fosse lecito se non addirittura giusto dare, in alcune circostanze, il peggio di sé (perché più sincero, autentico, "reale").
Tutto questo lo esemplifica bene la nuova accezione del lemma "buonismo" o la sbraitata avversione per il "politicamente corretto", oramai vere e proprie etichette e armi dialettiche usate in continuazione contro chi propone un dibattito più razionale e imparziale. Come se il fare del bene, essere tolleranti, compassionevoli, empatici, seguire le regole di buona civiltà e convivenza che abbiamo sviluppato in secoli sia oramai non una virtù, ma un buffo atteggiamento da candidi ingenui nel migliore dei casi, o frutto di un oscuro spietato e interessato calcolo personale. Come se odiare, ingiuriare, insultare, diffamare fossero non solo cose normali, ma persino giustificate, legittime, persino a tratti encomiabili. Prova ne sia il fatto che, per esempio, chi augura terribili nefandezze e invia turpi ingiurie a Laura Boldrini in un luogo pubblico non si premura nemmeno di usare l'anonimato, ma ci mette con orgoglio la faccia. E la cosa è - a dir poco - terrificante.
Ora, non fraintendetemi: non sono così ingenuo da non sapere che la frase "Alla fine il bene vince sempre" è terribilmente semplicistica e manichea. So bene che il punto della morale non è distinguere tra "bene" e "male" (quello sulla carta lo sanno fare tutti), ma distinguere la differenza tra male necessario e bene ineludibile, tra bene personale e male pubblico, tra astrazione normativa e applicazione pratica. Tutti, o quasi, sono convinti di fare il bene, anche quando fanno il male: il problema è che non lo riconoscono. Né mi sfugge il fatto che nella nostra epoca la devianza, la violenza, l'ingiustizia sono molto meno comuni di quanto non siano state per buona parte della storia dell'uomo; che, per molte ragioni, non siamo mai stati così bene sulla Terra. Eppure, sembra che ci sia qualcosa di profondo che si sta definitivamente rompendo nella nostra morale personale e nella nostra etica pubblica. Qualcosa che, una volta rotto, non riusciremo a riparare tanto facilmente.
Tuttavia, come amo ripetere spesso non solo a me stesso, denunciare e lamentarsi non serve a nulla: occorre cercare di identificare le ragioni di problema ed elaborare una strategia per cercare di risolverlo. Ecco quindi, in sette passi in ordine storico, come, a parer mio, siamo arrivati alla preoccupante situazione attuale, a un passo o quasi dall'abisso (sperando di non esserci già dentro):
- Il primo fattore è antichissimo, e deriva da come funziona il nostro cervello. Siamo biologicamente programmati per emettere giudizi rapidi, in modo da trovare rapidamente il rischio, il pericolo, e cercare di evitarlo. Ciò ci ha permesso di sopravvivere ed evolvere come specie per milioni di anni, nonostante non fossimo animali particolarmente prestanti o pericolosi (né, per un bel po', particolarmente intelligenti). Questa però è forse la prima era in cui l'incolumità della maggioranza degli esseri umani sulla Terra non è in pericolo ogni giorno. La maggioranza di noi non deve più guardarsi da tigri con denti a sciabola, né da incursioni di nemici dotati di lance o spade. Ciò ci porta a cercare il rischio, il pericolo: magari ingigantendolo, magari addirittura creandolo dove non c'è (ecco il seme del complottismo);
- Nell'ultimo secolo c'è stato un altro importante cambiamento non tanto nel nostro cervello, ma nel modo di usarlo: siamo diventati molto più bravi nel pensiero speculativo. Studi dimostrano che un secolo fa le persone trovavano molto difficile rispondere a sillogismi, deduzioni logiche, astrazioni. La loro vita era fatta da problemi pratici, molto manuali e "fisici". Oggi, invece, la "dematerializzazione" è in ogni dove, e il lavoro è sempre più "intellettuale": il nostro cervello è sempre più allenato a fare ragionamenti astratti. E questo è, ovviamente, un bene. Il problema, è che la logica non ce la insegnano a scuola, e spesso le nostre speculazioni mentali seguono "autostrade neurali" predefinite, pregiudiziali (vedi punto 1). Ecco allora che anche il meno acculturato riesce a immaginare e sostenere teorie indimostrate e indimostrabili, purché siano coerenti con la propria rappresentazione del mondo (ecco il seme delle "fake news");
- Dal primo dopoguerra il consolidamento del sistema produttivista e consumista ha promosso sempre di più il messaggio dell'eccezionalismo personale: l'idea che ognuno di noi è speciale, particolare, degno e meritevole delle migliori fortune (pensate alle pubblicità); la suggestione che perseguendo il mero interesse personale si faccia sempre e comunque anche il bene della collettività. Questo, nel tempo, ha molto lentamente ma ineluttabilmente eroso il senso di bene comune, di futuro condiviso, di pace sociale. Se ognuno di noi è speciale, se siamo autorizzati se non addirittura in diritto di chiedere e avere sempre di più, non abbiamo più la percezione di togliere nulla a nessuno, né tanto meno il dovere di condividere quello che che abbiamo ("Ospitali a casa tua" - seme dell'egoismo materiale e culturale);
- L'avvento della globalizzazione economica, tecnologica, sociale, politica ha portato in molti a rispondere con una personalizzazione etica, psicologica, relazionale. Il "villaggio globale" di rimbalzo ha portato molti alla costruzione di un "villaggio morale": un recinto di regole che fossero "speciali", solo per loro e quelli intorno a loro, quindi rifiutando o snobbando quelle più comuni e condivise per rendere il proprio "villaggio" più riconoscibile e dall'identità più forte. Per recuperare in un mondo mai così complesso e interconnesso il fondamentale senso di comunità ristretta, storicamente vitale per l'essere umano, fiorisce e si diffonde un forte tribalismo etico, che permetta di distinguere facilmente "i buoni e i cattivi", di essere ognuno "Padrone a casa propria", dove le regole sono chiare e le mura solide (ecco il seme del settarismo e della discriminazione sociale);
- Forse però la vera accelerazione recente della crisi è stata dovuta alle scelte e all'atteggiamento dei media e delle "élite culturali" che, ignorando le responsabilità dovute alla loro posizione, hanno rinunciato alla rappresentazione neutrale e razionale della realtà in favore di una narrazione catastrofista e allarmista, dando alle persone quello che volevano sentire: rischio, paura, complotto (vedi punto 1), denuncia sterile, lamento distruttivo (vedi punti 2), eccezionalismo personale (vedi punto 3). Questo in misura sempre maggiore fino a instaurare una dilagante e inscalfibile mentalità di scarsità: la convinzione diffusa che il mondo sia in rovina, alle soglie della sua fine (vedi il successo dei film catastrofici o le continue profezie sulla fine del mondo) e dove il male è sostanzialmente ovunque. Tutto ciò ha un effetto esiziale, perché alimenta l'idea che qualcuno ci stia togliendo ciò che ci è dovuto (complottismo), che siamo quindi autorizzati a riprendercelo persino in sfregio alle regole (settarismo), o che comunque si può fare un po' di male per fini personali perché tanto lo fanno tutti e anzi gli altri più di me (eccezionalismo).
- L'impressionante accelerazione tecnologica degli ultimi 15-20 anni ha quindi dato la botta finale. Prendo solo due esempi. Il primo, gli smartphone: diventati oramai il più indispensabile degli strumenti per ognuno di noi, hanno radicalmente impattato sulle dinamiche sociali e soprattutto ci hanno tolto la visione diacronica, immergendoci in un flusso di "presente" continuo, togliendoci sempre più la capacità di immaginare e ragionare sul lungo termine, assillandoci nella percezione dell'insormontabile problema quotidiano o irrinunciabile bisogno immediato, trascinandoci nella tentazione della soluzione rapida o del capro espiatorio a portata di mano. Il secondo, i social network: che non solo ci hanno circondato di "bolle informative" dandoci una percezione del mondo confermativa dei nostri pregiudizi, ma hanno anche alimentato il confronto falso con aspettative di vita irrealistiche (i super-ricchi alla Gianluca Vacchi sono i più osservati e ammirati) e offerto una percezione paradossale e antitetica di successo e agiatezza personale posticcia da una parte (ognuno di noi sui social pubblica il suo meglio) e di disastro sociale e collettivo dall'altra (la guerra, il terrorismo, la crisi...), alimentando ancora di più la percezione che personale-egoista sia bene e collettivo-condiviso sia male;
- Infine, l'ultimo e forse più importante dei punti: il nuovo meccanismo di creazione dell'identità tramite l'attività che si è fortemente instaurato in questi ultimi anni ci ha tolto il beneficio di una forte percezione di noi stessi. Non siamo più in grado di conoscerci bene, di fare una solida scala di valori, di stabilire obiettivi a lungo termine chiari, ma piuttosto annaspiamo nel mare del giorno dopo giorno alla ricerca di qualche appiglio materiale o di status sociale che ci aiuti a dire a noi stessi e agli altri chi siamo. Questo fa il paio con la crescente incertezza nel futuro: in un mondo che cambia sempre più rapidamente, in cui i dati (o "i fatti") sono sempre di più e sembrano contraddirsi tra loro, e in cui sempre più persone possono mettere le mani su strumenti e armi che potrebbero condannarci tutti all'estinzione, il domani appare sempre più nebuloso e quindi spaventoso. Senza risposte dentro e fuori di noi, persi nell'oceano dei relativismo e culturalismo contemporanei, siamo alla ricerca continua di certezze, di una terra ferma, ma lo facciamo in due modi diversi. Mentre il saggio e l'acculturato socraticamente sa di non sapere e accetta con timore reverenziale ma anche eccitazione il compito di esplorare lo sconosciuto e dargli una norma, lo sprovveduto procede a tentoni, si nasconde nel buio, e crea nella sua mente una terra ferma che non c'è, cercando di ritornare a un tempo che non è più e a delle certezze sue proprie che sono svanite.
Queste, io credo, sono le ragioni per cui ci troviamo in questa situazione. La domande ora centrale è: come usciamo da questo oceano di incertezza? Ci sono due grandi tipi di risposte, diametralmente opposte.
La prima è spingere ancora di più sull'individualismo: ognuno per sé e lasciamo che Darwin faccia il resto. In altre parole, lasciamo che gli stolti, i deboli, affoghino. Si tratta di una risposta cinica ma soprattutto ingenua, che in qualche modo molti propongo per temi come i migranti nel Mediterraneo o le vaccinazioni. A pensarci bene, infatti, appare subito chiaro che non ci si può aspettare che una tale massa scompaia nel silenzio, senza perlomeno cercare di sopravvivere e compromettendo, nella foga e nella disperazione, anche le scelte e il futuro degli altri. Abbiamo bisogno di una strategia coordinata e collettiva per uscire da un guaio grosso: sappiamo già da millenni che è la cooperazione che permette di sopravvivere ai disastri, non l'individualismo. Ed è per questo che la solidarietà umana di solito dà il meglio di sé di fronte ai disastri e alla scarsità e tende invece spesso a sparire nella fortuna e nell'abbondanza.
La seconda è invece investire in cultura, socialità, istruzione: i più fisicamente prestanti e con la mente più lucida vadano a raccogliere e ad accompagnare uno a uno tutti i deboli e stolti che si dimenano. Sembrerebbe una risposta più corretta e costruttiva, e per molti versi lo è. Rischia però di essere irrealistica e troppo rischiosa. Se ci sono troppo pochi soccorritori per affoganti, c'è un grosso rischio che la maggioranza impaurita, annaspante, cieca, dimenandosi porti sott'acqua i relativamente pochi soccorritori che cercano di alzare la testa e aiutarli nuotare nella direzione migliore. Studi hanno dimostrato che cercare di persuadere chi è convinto di una cosa falsa raramente porta quest'ultimo a cambiare idea: anzi, rischia di rinforzare le sue convinzioni e peggiorare la situazione. Certo, si potrebbe - e si deve! - fare un lungo e paziente lavoro culturale e di "semina", che senz'altro porterà i suoi frutti, ma abbiamo abbastanza tempo per aspettare? E se il messaggio di tolleranza, apertura, pace che è stato dominante negli ultimi 50 anni ha sostanzialmente fallito, perché dovrebbe funzionare il prossimo?
Nessuna delle due proposte sembra efficace. Sembra quindi che non ci sia soluzione. Siamo condannati a un mondo di crescente ignoranza, grettezza, segregazione, violenza. Addio, e grazie di tutto il pesce.
Ma forse una speranza c'è, e viene dal progresso e dall'avanzamento tecnologico nel mondo del lavoro. Sappiamo che i "robot" diventano sempre più intelligenti, che l'intelligenza artificiale propriamente detta è dietro l'angolo, che l'automazione, l'internet of thing, i big data toglieranno agli esseri umani milioni di lavori, mettendoli nelle "mani" delle fredde e efficienti macchine. Cosa faremo noi? Beh, dovremo dedicarci di più al lavoro "improduttivo": rinunciare ad essere "cacciatori" per diventare quasi tutti "coltivatori" e "sciamani". Ma prima dovremo sviluppare più le conoscenze delle competenze e promuovere la crescita vocazionale e di analisi personale. E prima ancora dovremo scardinare la mentalità di scarsità imperante e cercare di persuadere le persone che abbiamo risorse sufficienti e far stare tutti bene e a perseguire ad ognuno le proprie aspirazioni, se si rinuncia all'idea che altri vogliono rubarcele o impedirci di raggiungerle. Dovremo insomma concentrarci nel fare quello che le macchine non faranno mai bene come noi: prenderci cura delle persone, fisicamente, psicologicamente, culturalmente.
Prendersi cura degli altri sarà quindi l'unico (o quasi) modo di sostenersi, di prosperare; ed ecco perché oggi prendersi cura è il vero atto rivoluzionario da fare. Se il progresso storico e tecnologico ci sta naturalmente portando nella direzione di una società più allargata e empatica, a un futuro prossimo in cui il ritorno individuale (occupabilità e retribuzione) è più evidentemente e concretamente legato all'assistenza e al benessere collettivo, nostro compito è quello di far avvenire questa transizione con il minor numero di traumi possibile, e senza che generi effetti perversi laterali che potrebbero avere conseguenze nefaste. Ma, alla fine, pur con errori e non senza tanta preoccupazione e sofferenza, arriveremo a quell'obiettivo. Come lo so? Non lo so. Ma fin da piccolo mi hanno insegnato che:
Il bene alla fine trionfa sempre
E io voglio continuare a crederci. E noi dobbiamo continuare a crederci.
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