Il teatrino della realtà
Retablo viene dal latino reataulus, a sua volta composto da retro e tabula. Stando al Diccionario de la lengua española della Real Academia Española, l’organismo che sovrintende alle regole del castigliano, sono almeno tre gli ambiti di significato del sostantivo.
Il primo nell’arte dove retablo indica una serie di figure che rappresentano una storia esemplare. Il secondo ambito di significato, ed è il più comune nell’uso, in architettura: retablo indica allora una pala d’altare con incorniciatura architettonica e figure intagliate. Il terzo, infine, è teatrale: retablo è un piccolo scenario, un teatrino montabile in taverne o sagrati, dove figure mobili o burattini si disputano la scena.
È in questa accezione - l'ultima - che nella seconda parte del Don Chisciotte di Miguel de Cervantes il retablo appare nella storia del burattinaio mastro Pedro e della sua scimmia indovina.
Don Chisciotte assiste allo spettacolo dei burattini di mastro Pedro e, davanti alla scena della fuga di don Gaiferos e di Melisenda inseguiti dai mori, sguaina la spada perdendo, letteralmente, il senso della realtà.
Preso dalla foga di intervenire, il cavaliere decapita tutti i burattini finché non rovina anche il retablo:
«Vedendo e udendo tutta quella folla di mori e tutto quel frastuono, don Chisciotte ritenne opportuno offrire aiuto ai fuggitivi e, alzandosi in piedi, disse a voce alta:
- Io non permetterò, finché sarò in vita, che al mio cospetto venga commesso un oltraggio a un illustre cavaliere e così ardito innamorato come don Gaiferos. Fermatevi, malnata canaglia, non seguitelo e non perseguitelo, o dovrete battervi con me!
Detto fatto, sguainò la spada e con un balzo si posizionò accanto al teatrino, e con frenetica e inaudita furia cominciò a far piovere una serie di colpi sui burattini moreschi, abbattendone uno, decapitandone un altro, distruggendo questo e spaccando l'altro, e fra i tanti fendenti, ne tirò uno a un tale che, se mastro Pedro non si fosse abbassato, curvato e accovacciato, gli avrebbe mozzato la testa con più facilità che se fosse stata di marzapane. Mastro Pedro diceva gridando:
- Si fermi, signor don Chisciotte, e badi che quelli che sta abbattendo, distruggendo e ammazzando non sono dei veri mori, ma solo burattini di cartapesta.
Ma non per questo don Chisciotte cessava di dare stoccate (...) come un uragano. (...) Terminata la completa distruzione del teatrino, don Chisciotte si calmò un poco e disse:
- Vorrei aver qui dinanzi, in questo momento, tutti coloro che non credono, o non vogliono credere, che i cavalieri erranti siano di grande utilità in questo mondo».[1]
Ma è davvero solo questione di realtà? [2] Che cosa viene radicalmente posto in questione nell’episodio del «retablo de maese Pedro»? La realtà o il suo principio? In questione c’è, quanto meno, la facoltà di entrare e uscire dai molteplici piani di significato che compongono la nostra vita. [3] La complessità che il retablo evoca.
Il cavaliere errante non padroneggia più i margini di questa complessità. Sposta confini, sbaglia i contesti. Fraintende i codici e sovraccarica i messaggi. Si muove nelle cornici (frame) sbagliate e, in questo consegnarsi al malinteso, si fa letteralmente giocare dalla realtà.
La relazione – per usare un’espressione di Donald Winnicott – fra playing & reality, agire (ludico) e realtà giocata[4] è complessa. Il gioco ha un luogo e un tempo. Ma tale luogo e tale tempo non sono all’interno e neppure “al di fuori” del nostro luogo e del nostro tempo. Quella che, a prima vista, può apparire una contrazione è in realtà un’apertura.
Quella attraversata da Chisciotte e da lui fraintesa può essere considerata «un’area intermedia di “esperienza” a cui contribuiscono la realtà interna e la realtà esterna».[5]
Il retablo è un terzo spazio. Nello spazio altro, «nel magico riflettersi del mondo del gioco la singola cosa, presa casualmente (per esempio il giocattolo o, nel nostro caso, il burattino ndr) diventa letteralmente un “simbolo”. Esso rappresenta»[6].
Ma rappresentare non significa, banalmente, indicare. Il simbolo, infatti, non rappresenta. Il simbolo evoca. Per questo, osservava Paul Ricoeur, «le symbole donne à penser».
Il sociologo Robert Escarpit così delinea la natura del simbolo:
Essenzialmente allusivo, il simbolo (…) trae con sé a partire da un punto d’emergenza percettibile e identificabile, tutto un insieme semantico più o meno vasto, più o meno definito, che, grazie a esso, può essere evocato senza essere enunciato.[7]
Torniamo a Chischiotte, cavaliere pieno di gesti e di passioni. Alfred Schütz ha osservato che, nella vicenda di mastro Pedro, il cavaliere tocca proprio il nodo irrisolto e forse costitutivamente irrisolvibile del rapporto fra arte e azione, fra teatro e realtà. Fra gesto e rito. In una parola: tra realtà plurali.
Tutti noi viviamo in regni differenti quando lo spettacolo è in corso. Siamo spettatori, ma non entriamo in scena. È davvero così? Riusciamo realmente a distinguere fra eventi sulla scena ed eventi nella vita?
Nella realtà degli eventi della vita, spiega Schütz, ci troveremmo a contatto con l’unico «sotto-universo nel quale possiamo compiere le nostre azioni, su cui possiamo intervenire e che possiamo mutare, all’interno del quale possiamo stabilire una comune comunicazione con i nostri simili».
Ma se «la realtà degli eventi della vita» prevede un agire comunicativo (mutua inter homines communicatio), al contrario «la realtà degli eventi della scena» non permetterebbe alcuna azione, ma unicamente fruizione.
Don Chisciotte non coglie – o forse non accetta, come sembra suggerire un episodio del Dom Quixote di Orson Welles –[8] questa separazione troppo rigida. Sbaglia di contesto (frame) e fraintende quella che Gregory Bateson chiamerà «metacomunicazione». In particolare, non coglierebbe il messaggio «This is play», questo è un gioco, ovvero la metaregola che definisce il gioco e la possibilità di ciascuno di entrarne o uscirne. Ammesso che questa possibilità - e forse è proprio questo il messaggio radicale del Quixote - vi sia.
Note
[1] Miguel de Cervantes, El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha; trad. di B. Troiano e G. Di Dio: Don Chisciotte della Mancia, Roma, Newton Compton editori, 2018, p. 544. Per la lettura di questo episodio, rinvio a Alfonso M. Iacono, Questo è un gioco?Metacomunicazione e attraversamento di contesti, in Marco Deri (a cura di), Gregory Bateson, Milano, Paravia - Bruno Mondadori, 2000.
[2] Cfr. Alfred Schütz, “Don Quijote y el problema de la realidad”, Dianoia, n. 1 (1955); trad. di P. Jedlowski: Don Chisciotte e il problema della realtà, Roma, Armando editore, 1995.
[3] Alfonso M. Iacono, Questo è un gioco?Metacomunicazione e attraversamento di contesti, p. 184.
[4] Il titolo originale del lavoro di Donald Winnicott è, per l’appunto, Playing and reality (London, Tavistock, 1971). L’edizione italiana, nella traduzione di Giorgio Adamo e Renata Gaddini, opta per una diversa sfumatura, titolando: Gioco e realtà (Roma, Armando editore, 1974).
[5] Donald Winnicott, Gioco e realtà, p. 25.
[6] Eugen Fink, Oase des Glücks. Gedanken zu einer Ontologie des Spiels, Freiburg-München, Alber, 1957; Oasi del gioco, trad. e cura di A. Calligaris: Oasi del gioco, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008, p. 39.
[7] Robert Escarpit, Théorie générale de l’information et de la communication, Paris, Librairie Hachette, 1976; trad. di M. G. Rombi: Teoria dell’informazione e della comunicazione, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 158.
[8] Welles mostra il cavaliere errante nella sala di un cinema, alle prese con la cavalleria dei mori che avanza sullo schermo. La reazione di Chisciotte è squarciare lo schermo, aprire la scena.