Lo psicoanalista
Un raggio di sole filtrava dalle serrande abbassate del seminterrato e colpiva, con millimetrica esattezza, la sedia di legno su cui lui era seduto, al centro della stanza. Su una comoda poltrona, in un angolo buio, stava Tognoni, lo psicoanalista. Il viaggio per raggiungere il paesino toscano era stato faticoso, anche se le istruzioni dello psicoanalista erano state chiare: «Uscirà dall’autostrada a Livorno e prenderà la statale. Dopo circa quindici chilometri, vedrà alla sua sinistra un busto di Mazzini e poi l’osteria Ca’ du vin; girerà a destra e seguirà la freccia che indica la stazione. Parcheggerà sul piazzale e percorrerà la stradina che porta al mare. Arrivato alla fine, troverà alla sua sinistra una scuola di vela e, sulla destra, casa mia. L’aspetto alle otto».
Il dottore aveva fatto presente che doveva fare un lungo tragitto in macchina e avrebbe gradito un orario più tardo; d’altra parte, treni notturni per Livorno non ce n’erano.
«Quello che posso fare per lei è aspettarla fino alle otto e mezza ma non oltre, perché poi ho altri impegni».
Vista l’aria che tirava, il dottore fece in modo di essere lì per le otto in punto. Lo psicoanalista gli aprì il cancello, sorpreso: «Ma come? Lei è in anticipo!».
Comunque, lo fece entrare. Il dottore non ebbe nemmeno il tempo di apprezzare la bellezza dell’ampio giardino affacciato sul mare perché l’altro lo invitò a scendere attraverso una porticina seminascosta dall’edera direttamente nel seminterrato della casa, che a dire il vero aveva tutto l’aspetto di un bunker, dove lui e la moglie, psicoanalista anche lei, avevano lo studio. Nonostante la semioscurità e il sonno, il dottore si ritrovò improvvisamente vigile e pronto.
Se la era proprio andata a cercare. Terminata una prima analisi di otto anni aveva fatto domanda per essere ammesso al training di una società di psicoanalisi. Lo statuto della società prevedeva che gli aspiranti si sottoponessero a un esame selettivo consistente in tre colloqui con tre differenti analisti. Se l’esame fosse stato superato si sarebbe dovuto iniziare una terapia di quattro sedute alla settimana, definita “didattica”, perché da effettuarsi con un didatta, cioè con uno psicoanalista che aveva raggiunto il grado più elevato nella gerarchia della società. Dopo due anni di terapia era prevista una seconda selezione, con altri tre colloqui. Solo se l’aspirante psicoanalista superava questo filtro avrebbe potuto fregiarsi del titolo di “candidato” e cominciare il training vero e proprio, basato su quello che veniva definito il “Tripode”. Cioè, quattro anni di seminari teorici, la cura di due pazienti (uno uomo e l’altro donna) da effettuare con una terapia psicoanalitica di quattro sedute alla settimana, supervisionata da un didatta della società. Ogni terapia avrebbe dovuto continuare per almeno due anni. E così le supervisioni. In caso di interruzione prematura il candidato doveva ricominciare daccapo, con un nuovo paziente.
Terzo e ultimo, ma non per ultimo, il candidato avrebbe dovuto proseguire la propria analisi didattica fino alla conclusione delle supervisioni cliniche. Il percorso da seguire era lungo, complesso e suscettibile di critiche – come si fa a prescrivere una terapia che richiede, per produrre effettivi risultati, una motivazione spontanea e genuina? – ma era chiaro, almeno nelle sue linee generali.
Al contrario, nessuno sapeva su cosa si sarebbero incentrati i colloqui di selezione, né quali sarebbero stati i criteri seguiti dagli analisti didatti che vi erano preposti per respingere oppure accettare le candidature... #psicoterapia #felicità #sviluppopersonale #salutementale