Sapere di non sapere
La frase e il concetto di "sapere di non sapere" viene generalmente attribuito a Socrate dal suo prediletto discepolo Platone, che nell'opera "Apologia di Socrate" e nel "Menone", affronta incidentalmente questo tema.
Ma l'idea della "dotta ignoranza", formulata esplicitamente per primo da Sant'Agostino e approfondita successivamente, sempre in chiave teologica, da Niccolò Cusano in pieno Rinascimento (1), ci permette di affrontare almeno due problematiche in chiave lavorativa.
La prima, è il ruolo dell'ignoranza all'interno di una organizzazione che, per definizione, procede per assiomi.
La seconda riflessione, premesso che tale ignoranza sia, appunto, "dotta" e non semplicemente un caso di humblebragging (falsa modestia) ci obbliga a ripensare anche al sistema di valutazione e di auto-valutazione degli individui, che determina, in un sistema apparentemente meritocratico, anche il successo lavorativo e le gerarchie aziendali.
Partiamo da quest'ultimo punto.
Ogni sistema di valutazione delle performance rimane, necessariamente, soggetto a variabili "soggettive". Una conoscenza ritenuta sufficiente da un individuo, benché misurata analiticamente, potrebbe apparire insufficiente per altri ... e viceversa.
I sistemi di misurazione sono, inoltre, costruiti su variabili anch'esse soggettive e non riescono a tenere in debita considerazione aspetti legati, ad esempio, a una cultura aziendale e a un sistema valoriale che cambia di giorno in giorno.
L'importanza nel dare una risposta giusta a una domanda specifica riguardante, ad esempio, la conoscenza di una procedura interna, ammesso che ci sia una risposta giusta, dipende dal valore che diamo alla stessa procedura o al sistema delle procedure. Una risposta errata può essere pertanto grave o lieve a seconda del punto di vista.
La dotta ignoranza come valore rimane, quindi, legata per lo più al processo, non al contenuto in sé, ovvero, al costante arricchimento che ciascuno individuo, o lavoratore, deve cercare di perseguire, partendo dalla considerazione che anche nel suo campo c'è ancora molto da apprendere.
Ma attenzione! Il non sapere, l'ignoranza, non è mai vista come un valore in sè, quanto piuttosto il sapere (di non sapere) rappresenta un'asticella che dovrebbe spostarsi più in alto ogni volta che ci accorgiamo di aver capito qualcosa.
Come diceva Richard Feynman: "[...] the problem is that people are educated just enough to believe what they have been taught, and not educated enough to question anything from what they have been taught".
Da qui il secondo aspetto che possiamo approfondire, sempre nel tentativo di dare una certa concretezza e, chissà, una qualsiasi utilità, alla riflessione.
Quanto è funzionale in un'organizzazione il dubbio, l'insicurezza delle proprie certezze, il processo di continuo apprendimento basato sulla mancata completezza della propria conoscenza?
A livello di individuo, lo sappiamo, il leader deve avere certezze per essere riconosciuto tale, in quanto la sua capacità di "influenzare" prevale su quella di comandare ("headship"). Ma in una definizione popolare fra impiegati, il capo è appunto colui che prende decisioni pur essendo ignorante sul tema o avere una visione solo parziale di un argomento (2).
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Allo stesso modo, l'individuo, che in qualsiasi posizione gerarchica mostra sicurezza nelle proprie affermazioni, verosimili, ma non necessariamente esatte, rappresenta la piena espressione di quell'effetto Dunning-Kruger, evidenziato già dallo stesso Darwin (3), che caratterizza gli appartenenti a qualsiasi organizzazione complessa (4), ove "people with limited competence in a particular domain overestimate their abilities".
A livello di gruppo, invece, alcuni studi mostrerebbero come proprio una minore sicurezza per le proprie convinzioni aumenti il valore del gruppo sociale, dove l'errore agisce come impulso verso un progressivo miglioramento (5).
Bisogna liberarsi, quindi, di quel bias cognitivo che confonde sicurezza con conoscenza, smascherare la certezza e confutare la protervia della sicumera, ripristinando la dialettica socratica come metodo e perseguendo una dotta ignoranza.
Diversamente, continueremo ad illuderci e, successivamente, a deluderci, da chi incontriamo sul nostro cammino, abbagliati dalla sua autostima e ottenebrati dalla nostra disistima, "nella beata notte dell’ignoranza, quando tutti i gatti sono grigi” (6) (7).
1) "Nessun'altra dottrina più perfetta può sopraggiungere all'uomo (anche più diligente) oltre quella di scoprire di essere dottissimo nella sua propria ignoranza: e tanto più uno sarà dotto, quanto più si saprà ignorante". La dotta ignoranza, I.1 in Opere filosofiche, a c. di G. Federici Vescovini, UTET, Torino 1972, p. 57
2) Il buon leader si prende però le sue responsabilità. Il pessimo leader le scarica sui sottoposti
3) "Ignorance more frequently begets confidence than does knowledge: it is those who know little, and not those who know much, who so positively assert that this or that problem will never be solved by science". Charles Darwin, The Descent of Man (1871) introduction
4) Quando a Dunning fu chiesto in un’intervista quale singola caratteristica rende una persona incline all’autoinganno, lui rispose “il fatto stesso di respirare”
5) Si veda ad esempio "Divergent Consequences of Success and Failure in Japan and North America: An Investigation of Self-improving Motivations and Malleable Selves" 2001
6) L'idea del gatto che di notte è sempre grigio, nasce probabilmente in Inghilterra, ma, per alcuni, è attribuibile a Erasmo da Rotterdam. La frase qui riportata è, invece, una felice trasposizione di Franz Mehring, la cui biografia meriterebbe certo qualche riga in più su Wikpedia.
7) Giorgio Salmon "Franz Mering" Prospettiva, 1994 link