Trasparenze tangibili

Trasparenze tangibili

In questi ultimi mesi viaggio tanto per lavoro. Più del solito (che è già ampiamente più del dovuto/normale). Non è un caso infatti se mi state leggendo meno (mea culpa). Il tempo in treno è però a volte prezioso per leggere e fare qualche riflessione. Tornando Martedì sera, in mezzo alla tragedia dello sciopero, ho avuto tempo di leggere tanto sulla vittoria di Trump (non preoccuparvi, non parlerò di questo). Uno dei punti che più mi ha colpito è relativo ad uno degli errori imputati alla Harris e ai democratici: la scarsa trasparenza sulla salute di Biden. Il ragionamento è chiaro: come posso fidarmi di chi mi ha mentito o, anche solo, trascurato di raccontare alcune cose importanti?

Trasparenza ecco. Un elemento che riecheggia oggi spesso nel nostro ambito e che negli ultimi anni (ma forse è sempre stata lì) ha guadagnato un peso di enorme valore. Dal post Covid è emersa con prepotenza, ricordandoci quanto sia qualcosa a cui gli utenti non possono/vogliono rinunciare più.

Nulla di nuovo a pensarci bene. Parliamo tanto di social come mezzo di conversazione e relazione, ma entrambe sono attività che sono difficilmente creabili senza un sano livello di trasparenza, di onestà, di verità. Ce lo dicono insight e report, dal noto Trust Barometer e molti altri. Ne cito giusto uno di Doxa di inizio anno che racconta non solo come la trasparenza sia il principale elemento che porta gli utenti a seguire o meno un influencer, ma come questa sia decisiva per il buon risultato di un contenuto branded.

Ok la competenza, l’entertainment, ma queste hanno senso se prima, alla base, c’è trasparenza. Una trasparenza che funziona perché è driver di credibilità, di fiducia, di trust nel senso più marketing del termine, arricchendo di un valore aggiunto non solo contenuti o prodotti, ma l’intero journey del utente/consumatore.

Ma ricondurla a una mera questione di verità sarebbe sbagliato. Essere trasparenti significa anche dare valore al nostro interlocutore o, meglio, metterlo sul nostro stesso piano, in un rapporto, appunto, che sia funzionale oltre che onesto. Molti degli elettori americani, tornando alla Harris, avranno pensato di non esser stati ritenuti in grado di gestire la verità su Biden o, peggio, di essere ritenuti talmente poco svegli da essere raggirati o quantomeno gestiti.

Se tendiamo la mano e proponiamo di connetterci, realmente, con qualcun altro dobbiamo sempre ricordarci che questa è una promessa, un impegno che va in una direzione precisa e che se non rispettato non riduce i vantaggi, ma porta con sé criticità.

Ma non possiamo essere trasparenti fermandoci all’esterno, alla comunicazione. Questa deve, per essere reale, giocoforza toccare tutti gli aspetti del brand perché possa essere un valore aggiunto, ma ancor di più per evitare cortocircuiti prima e crisis poi. Dopo trasparenza nel nostro dizionario ci deve essere coerenza, qualcosa che molti brand hanno dimenticato, soprattutto in questi anni di purpose e comunicazione valoriale. Essere trasparenti è infatti la via principale per poter lavorare su questi temi in modo credibile e, quindi, funzionale, dando concretezza ai nostri messaggi e dargli un reale significato. Patagonia non è trasparente solo nella sua comunicazione, ma ancor prima nei suoi processi interni, nella produzione, nella scelta delle materie prime. Una trasparenza coerente, appunto, che proprio per questo è diventato non solo elemento relazionale, ma ancor più importante tratto caratterizzante della sua USP e, quindi, distintivo nel mercato. Nel senso che chi sceglie Patagonia lo fa ANCHE (se non soprattutto) per questo.

Una volontà di trasparenza che si legge anche nella declinazione di formato, nello stile e nell’estetica di molti contenuti che oggi popolano i social. La spontaneità, quell’effetto raw, “crudo”, in cui spesso ci imbattiamo in TikTok o nei Reel sono a mio avviso una diretta conseguenza di questa volontà, così come l’interesse per Stories e live, formati per lo più in presa diretta e che offrono quindi agli utenti un livello minimo di artefazione. Una reazione, probabilmente, ai contenuti patinati di qualche anno fa o all’eccesso di sovrastrutture, anche di montaggi ed effetti, di molti altri. Volendo estremizzare l’eccesso più grande, oggi, è creare qualcosa di finto ma che sembri reale. Quello che succedeva nei primi (non quelli attuali) video fake out of home dove era proprio il loro sembrare veri a fare la differenza.

Un punto, quello della trasparenza, che non è certo un semplice trend e che, anzi, si rafforzerà nei prossimi anni complice la grande sensibilità in tal senso delle nuove generazioni. Secondo uno studio condotto da Sprout Social, l'86% ritiene che la trasparenza aziendale favorisca la lealtà al brand, mentre l'81% si dice disposto a provare i prodotti di un’azienda per la prima volta se la percepisce come trasparente.

E se creator e influencer, per lo più, lo hanno compreso e messo in atto (non certo tutti), i brand faticano ancora a lavorare in tal senso, spesso perché non considerano quanto la scelta della trasparenza sia un percorso lungo, con numerose difficoltà anche pratiche, un percorso che però nello scenario odierno, non è più rinunciabile. Perché a un certo punto o inizi a nuotare o la corrente ti trascina.

Sergio Cucini

esperto di turismo

4 mesi

Perché dovremmo ritenere che Trump sia stato trasparente durante il suo mandato e la campagna elettorale? Mutatis mutandis la sua vittoria confuta parte di un discorso per il resto condivisibile ma opinabile.

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