Il 13 gennaio 1910 nasceva la Nazionale italiana di calcio. Un gruppo di pionieri con maglie di lana pesante, pantaloni sotto al ginocchio e una passione fuori misura per un gioco che sarebbe diventato leggenda. Il primo match, a maggio, contro la Francia, fu un trionfo per 6-2, ma non tutto fu facile negli anni a venire. La storia della Nazionale è costellata di successi straordinari e sconfitte che ancora bruciano, ma anche di episodi che raccontano qualcosa di più profondo: l'attaccamento alla maglia. C'è il ricordo del 1982, con l’urlo di Tardelli e il Mundial alzato da un inossidabile Dino Zoff. C’è il rigore di Baggio del 1994, quel pallone che sembra ancora sospeso in aria, metafora di quanto sottile possa essere il confine tra gloria e rimpianto. E poi c'è l'estate del 2006, con un’Italia campione del mondo che abbracciava un intero Paese, mentre Cannavaro sollevava la coppa sotto il cielo di Berlino. Chi non ricorda il “cucchiaio” di Pirlo contro l’Inghilterra o le parate di Donnarumma nel 2021? In un mondo dove i risultati si misurano in numeri e obiettivi, il vero motore del successo è il senso di squadra. Una squadra vincente è fatta di persone che credono in un progetto comune, che mettono da parte l'ego per costruire qualcosa di più grande, qualcosa che li sopravvive. L’attaccamento alla "maglia aziendale" non si impone: si ispira, si nutre e si costruisce attraverso un ambiente in cui ciascuno si sente valorizzato. Non si gioca per sé, ma per il gruppo, per un simbolo, per qualcosa di più grande. Lo stesso vale per ogni azienda. Quando le persone si sentono parte di una squadra, quando indossano la "maglia aziendale" con orgoglio, allora tutto è possibile. Un obiettivo condiviso può trasformare ogni collaboratore in un Tardelli, un Cannavaro o un Gattuso. Perché in fondo, come diceva Simon Sinek “customers will never love a company until the employees love it first”. #SettimoPiano #TeamSpirit #TeamBuilding #CompanyCulture #EmployeeEngagement #Leadership #Inspiration
Post di Settimo Piano
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https://lnkd.in/dVjNTD3z DOVE SONO I NUOVI CAMPIONI ITALIANI? RIFLESSIONE POST SPAGNA-ITALIA Siamo passati da nazionali guidate dai vari Totti, Baggio, Maldini e Del Piero agli attuali calciatori italiani. Abbiamo un grave problema. Chi lo sminuisce è assuefatto dalla mediocrità ed è parte del problema stesso. Quando si guarda alla nazionale lo si può fare da tifosi, dando peso ai risultati e alle performance, oppure soffermandosi sulle qualità dei singoli, espressione di un movimento. Ricordo che qualità, organizzazione collettiva e risultati non sempre vanno a braccetto. Anche la Grecia è stata campione d'Europa. Ieri Italia-Spagna è stata l'ennesima prova del divario qualitativo dei due paesi. E questo resta anche se trovando un nuovo assetto collettivo vincessimo l'attuale europeo. Questa, dopo due mancate qualificazioni europee, una maglia numero 10 che al passaggio di generazione finisce sulle spalle di qualcuno sempre meno forte di quello precedente, è l'ennesima occasione che ci viene concessa per mettere tutto in discussione e cambiare senso di marcia. Da anni ci viene raccontato che il futuro sarà roseo perché le nazionali giovanili stanno vincendo trofei e scalando i ranking. Ci dicono che abbiamo i migliori giovani ma poi si perdono...Questa narrazione costruita ad hoc serve per creare una bolla italica dove chi ha le redini se la suona e se la canta, nonostante sia sbagliata e getti fumo negli occhi. Vi siete mai domandati come vengano raggiunti questi risultati? Avete mai riflettuto sul fatto che le nostre naz.giovanili hanno i migliori risultati della storia del nostro calcio e che se stessero ad indicare il futuro dovremmo avere giocatori più forti di Totti e Baggio? Bisogna prendere le distanze. Perché questo è diventato l'alibi del sistema che da una parte mostra un futuro migliore sempre al di là da venire e dall'altra, essendo un sistema complesso influenza, con queste favole, tutto il movimento. In un ambiente sempre più politico che parla politichese per raggiungere obiettivi personali, non certo di sistema, serve costruire una forte opposizione e questo lo si fa iniziando a non abboccare più a quanto viene raccontato. Bisogna essere curiosi e accendere il pensiero critico... Come riporto nel mio libro "Oro Sprecato. Come il calcio italiano sta uccidendo il talento", Lele Adani ci da un chiaro esempio di cosa significhi vivere dentro una bolla: i nostri sono i giocatori più bravi della storia del calcio […] non esiste nessuno che possa competere con il campionato italiano, Coverciano è la scuola del calcio […] Continua sul mio blog.... Per chi volesse approfondire ulteriormente qui il mio libro: https://lnkd.in/dh2H3HTS
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Figuriamoci se il giorno dopo la pubblicazione dell'articolo de Il Fatto Quotidiano, che ha messo in evidenza «tutti gli inciuci, tutti i cavilli, sgambetti e ritorsioni, tutte le intimidazioni e i tentativi di cambiare le leggi a suo favore pur di sbarazzarsi di chiunque gli remasse contro», l'attuale presidente FIP non replicasse con una dichiarazione, l'ennesima, assolutamente falsa e priva di fondamento. Tanto per cominciare, secondo le stime del Coni - non ho idea su che base vengano fatti questi sondaggi, almeno credo si possano definire tali, - il basket, che una volta era il secondo sport più seguito in Italia dopo il calcio, adesso è precipitato in maniera preoccupante ALL'OTTAVO POSTO. Non dice certo tutto, ma credo proprio ci si possa intanto fare una piccola idea del VERO stato in cui riversa attualmente la palla a spicchi. La finale di Supercoppa giocata domenica scorsa tra Milano e Bologna è stato il riflesso di un sistema che beneficia sempre delle stesse squadre, quindi chi può avere interesse a sponsorizzare il basket quando tra le prime in classifica ci sono sempre le solite note? È facile parlare di salute quando esistono risorse per fare investimenti mastodontici... Ma le molte, TROPPE REALTÀ, soprattutto nel femminile, che lottano semplicemente per rimanere a galla? La questione poi della visibilità delle partite è fondamentale: se l'accesso al basket è limitato a pochi fortunati che possono permettersi abbonamenti a reti a pagamento, il cui costo non è propriamente economico e la qualità delle immagini spesso e volentieri tutt'altro che eccelsa, non ci si può aspettare che l'interesse aumenti... La Nazionale, simbolo dell'unità del paese, DEVE ESSERE DI E PER TUTTI, deve essere SEMPRE trasmessa in chiaro perché possa raggiungere un pubblico più ampio. Chi può sapere, a chi può interessare se vince o perde, quando per seguirla si deve anche qui passare per reti a pagamento? È veramente assurdo che il tifo e l'entusiasmo per il basket siano frenati da questioni commerciali e contratti televisivi. Infine la critica nei confronti dell'Eurolega, la massima competizione per club a livello aeuropeo, che si sovrappone agli impegni della Nazionale, dimostra una volta di più una mancanza totale di coordinamento e pianificazione. È evidente che il sistema attuale non è sostenibile, e che una revisione profonda delle dinamiche che regolano il nostro basket è urgentemente necessaria. La realtà, quindi, è ben diversa. Il basket italiano NON È AFFATTO IN SALUTE. Senza un intervento significativo, il futuro del nostro movimento rischia di essere contrassegnato da una stagnazione incolmabile.
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Lo sport vissuto con testa e cuore è sempre l'insegnamento più bello.
Quanto ne avevamo bisogno di una serata come quella di ieri! Quanto avevamo bisogno di due atleti capaci di interpretare il proprio lavoro come qualcosa da regalare innanzitutto a se stessi, ma senza mai perdere di vista le emozioni degli altri. Quanto avevamo bisogno di due fenomeni della racchetta capaci di fare la differenza soprattutto con la testa e con il cuore. Era stato sin troppo facile, dopo l’imbarazzante debacle della Nazionale azzurra agli europei di calcio contro la Svizzera, richiamare lo standing psicologico di un campione come Jannik Sinner. Sottolineare l’abisso fra chi non è disposto a cedere neppure un centimetro e chi non ha neppure cominciato a giocare. In campo, ieri sera sul centrale del torneo di tennis più prestigioso della storia, tutto questo è stato ulteriormente esaltato da un altro azzurro. Un ragazzone che ha toccato l’Olimpo ed è poi finito in un buco nero di infortuni e mille paure che solo chi ha provato “lo sport del diavolo” può anche solo immaginare. Contro il più forte, nella partita in cui potevi finire stritolato e spazzato via, Matteo Berrettini ci ha magnificamente ricordato perché una manciata di mesi fa era stato lui a fare impazzire l’Italia, un attimo prima che il fisico lo tradisse e si accendesse la stella-Sinner. Ha perso, ma sa che il tennis restituisce a chi merita. Come sempre lo sport, inflessibile con chi non ha i numeri morali per reggere il confronto e lasciare un segno di sé. Ieri sera siamo stati orgogliosi di Jannik e Matteo (come prima di loro di un favoloso Fabio Fognini, biondo platinato a 37 anni per fare ancora show) e questa mattina lo siamo ancora di più, pensando a quanto il mondo sia rimasto a bocca aperta a vedere uno degli incontri di secondo turno più belli che si ricordino a Wimbledon. E se qualcuno insiste a fare quello con la puzza sotto il naso, pazienza. È quel qualcuno a non capire quale fortuna ci sia capitata a vivere una serata così. Problemi suoi. La Ragione
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Ancora ebbro di una felice prestazione in Coppa Italia del mio AC Milan ieri sera (guardata con Luca, entrambi febbricitanti, sul divano) mi si sblocca questo recente ricordo legato appunto alla mia squadra del cuore. Bratislava, 22.15 di martedì 26 novembre, si sono da poco spenti i riflettori sullo #show principale ma le attività continuano incessanti. Per un curioso osservatore come me è un piacere vivere questa frenesia post evento: magazzinieri che caricano i bus, il marketing che raduna ospiti e sponsor, lo staff medico che cura gli ultimi dettagli, prima gli addetti alla comunicazione che salutano giornalisti e cameramen e poi dirigenti, analisti e staff ad archiviare anche questa trasferta mentre a Milanello si prepara l’arrivo della squadra e l’allenamento del giorno dopo. Una vera e propria #filieraproduttiva, tanti professionisti al servizio di uno spettacolo solo apparentemente nelle mani (o nei piedi) di pochi. Una società di calcio oggi è una vera e propria grande impresa con tutte le implicazioni economiche e sociali che ne derivano. La complessità della macchina operativa è sconosciuta ai più che (giustamente) godono dell’evento sportivo ignorando il processo complesso e le centinaia di persone che ci stanno dietro. A questi livelli il calcio è industria dell’#intrattenimento, la partita e le emozioni vissute sono il servizio erogato, le proprietà sono sempre più frequentemente fondi di investimento e tutti gli aspetti legati al mondo media sono sempre più rilevanti. Non sarà, ad esempio, un caso se nel mondo anglosassone l’allenatore viene chiamato “Manager”. Nella mia privilegiata veste di tifoso e sponsor godo di una posizione unica per apprezzare il percorso di #trasformazione di una società, il Milan, che da un approccio imprenditoriale “classico” (quello che ha fatto godere la mia generazione) sta cercando di trasformarsi in una società moderna dove analisi dei dati, misurazione delle performances e attenzione ai nuovi trend, hanno preso il posto delle intuizioni dei singoli o dei rapporti privilegiati. Dove è esigenza vitale avere uno stadio moderno e polifunzionale che aumenti ricavi, awareness e fidelizzazione. Dove i manager sono sempre più internazionali e arrivano, magari, anche da altre industries. Dove i calciatori sono e saranno osservati dalle persone ma sempre più supportati dalle statistiche e dai dati forse mandando in pensione una generazione di guru o di improvvisati esperti con l’affare “esotico” della vita. Dove team, istituzioni, sponsor, media e pubblico debbono interagire per dare vita a uno spettacolo senza fine, non mondi separati e paralleli dove ognuno guarda al suo, ma un #team sincrono alla ricerca del massimo risultato. Negli USA lo #sport è da tempo un grande spettacolo e un enorme business. Per noi romantici europei forse, almeno in questo senso, non c’è nulla da inventare ma qualcosa da copiare bene. Poi il resto lo fanno loro, i 22 ragazzi in campo e i tifosi. #cambiamento #innovation
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Per tutti quelli che credono che il calcio ormai sia solo una questione di soldi, che nulla si possa ottenere senza i petrodollari degli arabi, per chi non crede più nella poesia e nel romanticismo di un pallone che rotola in giro per il mondo c’è…l’Atalanta. La vittoria travolgente di ieri sera contro i campioni di Germania del Bayer Leverkusen per tre a zero nella finalissima di Europa League di Dublino è una di quelle pagine memorabili che il pallone - nonostante tutto - sa ancora regalare. Il calcio quando è al meglio di se stesso: serietà, programmazione, qualità, spirito di squadra e di sacrificio. E poi la spinta psicologica e morale di un’intera comunità che si identifica nella propria squadra. Se la vittoria nerazzurra è diversa da tante altre ed è destinata essere ricordata come qualcosa di oggettivamente memorabile lo si deve molto proprio a questa simbiosi totale fra una città e il proprio simbolo più noto in giro per l’Europa. Che ha meno soldi, meno tifosi, meno peso politico, meno interesse televisivo e fa giustizia in una serata perfetta di tante presuntuose sciocchezze che si dicono e scrivono sullo sport più bello del mondo. La vittoria dei ragazzi di Gasperini non significa che dall’anno prossimo lo scudetto sarà una faccenda aperta anche alle cosiddette provinciali o che la prossima Champions League verrà dominata da chi non ha mai neppure sognato di poterlo fare. Significa, però, che credendoci nulla è impossibile in partenza, niente è precluso solo perché qualcuno può permettersi di comprare a prezzi fuori dalla logica e dal mercato chi vuole. Alla fine, in campo si va in 11 e a vincere sono le squadre e costruire una squadra di calcio è certamente un’opera da economisti, ma anche da ingegneri dell’anima, di grandi disegnatori di fantasia. Si può vincere in tanti modi diversi: si possono prendere le scorciatoie della ricchezza ed è assolutamente legittimo farlo, ma ogni tanto quel vezzoso pallone si diverte a ricordarci che per vincere può bastare la bellezza di una squadra costruita per interpretare i sogni più sfrenati di un’intera città. E noi ce ne torniamo a casa ricordando perché amiamo tanto questo sport, come quando giocavamo fino all’ultimo filo di luce a illuminare le cartelle usate per disegnare i nostri immaginari Maracanã. di Fulvio Giuliani #calcio #sport
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Ho lasciato passare un po’ di giorni dopo la nefasta uscita della nostra Nazionale di calcio dagli Europei 2024. Molte analisi sono state fatte e molte se ne faranno. Qualcuno ha detto che a questa squadra sono mancati giocatori come Bonucci e Chiellini. Eppure io mi ricordo quando i sopracitati sono diventati i titolari della nostra retroguardia, che qualcuno diceva: “certo da Baresi e Maldini a Bonucci e Chiellini, è un bel passo indietro”. E in effetti come dargli torto. Il concetto è che comunque anche con Bonucci e Chiellini non ci siamo qualificati per due mondiali e questa cosa è ben più grave rispetto anche a vincere un Europeo, che come tutte le cose avvenute quasi per caso, non ha fatto altro che nascondere un po’ di polvere sotto il tappeto! Ma in Italia, come tutti gli altri ambiti della società, chi ha responsabilità e sbaglia, non paga mai! Io voglio solo ribadire un concetto, già espresso qualche tempo fa in occasione della sconfitta contro la Macedonia: fino a quando i settori giovanili non torneranno al centro dei progetti dei club, il calcio italiano farà sempre più fatica a trovare giocatori competitivi a livello mondiale. Per lavoro spesso mi imbatto in staff preparati, che hanno voglia e competenze importanti, che sono costretti a lavorare come si faceva negli anni 60 perché il presidente non intende investire un euro nel settore giovanile. Come facciamo a creare nuove generazioni di calciatori se non investiamo nel loro futuro con serietà, competenza, professionalità, innovazione, tecnologia, strutture, ecc ecc.???!!! Come facciamo a creare calciatori se non investiamo nei “Maestri”, ma nel settore giovanile paghiamo a rimborsi spese?!!!! Come facciamo a creare calciatori se non esiste la meritocrazia e in Nazionale arrivano giocatori squalificati, ma che giocano nella Juve, mentre lasciamo a casa gente con molta più fame che magari gioca in club più piccoli?!!!! La formula per creare nuove generazioni di calciatori competitivi non è un coniglio da tirar fuori da un cilindro. Ci vuole programmazione, competenza e innovazione!!! Altrimenti per altri 20 anni continueremo a dire: “Aaahhh da quando Baggio non gioca più!”. Il calcio in Italia NON è solo un gioco! Diceva Sacchi che il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti! Sperem!
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𝗥𝗮𝗴𝗮, 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼 𝗲̀ AC Milan. È un invito a connettersi con l’identità più profonda del club. È un promemoria del perché si gioca, del significato che va oltre il risultato della partita. Non è solo un richiamo alla squadra o alla sua storia. Poche parole per un esempio cristallino di come un leader possa evocare la cultura e i valori di un’organizzazione per ispirare il proprio team. È il perfetto parallelo a quello che, in azienda, chiamiamo #purpose: il motivo per cui esistiamo, ciò che ci distingue e che dà senso al nostro lavoro. Avere una cultura forte e condivisa è una delle poche vere leve strategiche per attrarre e trattenere talenti. Come Ibrahimović ha ricordato ai calciatori che giocare per il #Milan significa qualcosa di più che vincere una partita, così i leader aziendali devono ricordare ai propri team che lavorare per quell’azienda è un atto di appartenenza a qualcosa di più grande. Non a caso nelle ore successive il Mister Conceicao ha parlato di "pance piene". E poi c’è quel passaggio chiave: 𝘾𝙝𝙞 𝙫𝙪𝙤𝙡𝙚 𝙚𝙣𝙩𝙧𝙖𝙧𝙚 𝙣𝙚𝙡𝙡𝙖 𝙨𝙩𝙤𝙧𝙞𝙖 𝙙𝙚𝙡 𝙈𝙞𝙡𝙖𝙣 𝙙𝙚𝙫𝙚 𝙫𝙞𝙣𝙘𝙚𝙧𝙚 𝙦𝙪𝙚𝙨𝙩𝙞 𝙩𝙧𝙤𝙛𝙚𝙞 che non è solo motivazione, è una dichiarazione di responsabilità. Entrare nella storia non è un diritto, è una conquista. Vale lo stesso per le nostre aziende: essere parte di una cultura non è solo uno stato passivo, ma un impegno quotidiano a viverne i valori e a contribuire al suo successo. Che si tratti di un campo di calcio o di una sala riunioni, i trofei cambiano forma, ma il principio resta lo stesso: è la #cultura che ci unisce, che ci spinge a dare il meglio e che, alla fine, ci permette di entrare nella storia. #HR #Lavoro #SoftSkills #SportPsychology #PsicologiaSportiva #PsicologiaDelloSport Lega Serie A FIGC - Federazione Italiana Giuoco Calcio CONI UEFA FIFA
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L’Italia ha vinto la terza Coppa Davis facendo la cosa più complicata per chi conosce il mondo dello sport: trionfare da favoriti. Questo vivere con agio il ruolo di “primi della classe”, non è una caratteristica peculiare di noi italiani. A ben vedere, abbiamo una presidente del Consiglio e una leader dell’opposizione che hanno amato presentarsi come underdog o invisibile, viviamo i nostri più importanti successi e traguardi come una grande sorpresa che facciamo al mondo e tanto per cominciare a noi stessi. Possiamo limitarci a ricordare la stupefacente campagna vaccinale durante il Covid o il colpo di reni per entrare da subito nell’Euro. Il punto è che godiamo nel raccontarci proprio così: quelli dello stellone, della genialità sempre pronta a salvarci sull’orlo del precipizio, la comunità fatta di una somma di individualità. Per chi non segue o non seguiva il Tennis, la dimensione dell’Italia oggi è quella propria degli Stati Uniti d’America al loro meglio, nelle ere segnate da John McEnroe, Andre Agassi e Pete Sampras. Nulla a che vedere con fenomeni che hanno fatto la storia di questo sport, come Federer o Djokovic, mai neppure lontanamente appoggiati da un movimento paragonabile al nostro di oggi. Solo la programmazione e un intelligente utilizzo delle risorse a disposizione può aiutare a capire - al netto del talento - come si possa essere arrivati a questi risultati. Ci sono due realtà che vogliamo porre alla vostra attenzione: si è individuato un asset che potesse fungere da volano per l’intero movimento negli Internazionali di Roma. Questo ha generato un giro d’affari e d’attenzione da ridistribuire non a pioggia - pratica sempre inutile e pericolosa - ma in modo mirato. Eccoci alla seconda realtà: l’individuazione e il sostegno dei più meritevoli. Nello sport è più facile, perché hai bisogno di chi sia in grado di vincere, ma il concetto di fondo ha un’applicazione generale: se vuoi competere ai massimi livelli internazionali, fare selezione non è una mancanza di riguardo per i meno dotati ma un obbligo morale nei confronti di chi può dare di più e sarà chiamato a sopportare le maggiori pressioni. Questo, a cascata, produrrà una maggiore disponibilità economica e di attenzione mediatica nei confronti di un intero movimento o settore. Altro elemento è la demolizione della retorica secondo la quale si è “condannati” a far bene certe cose e meno altre. Nello sport, gli italiani sono i genialoidi che rendono affascinante l’anarchia ma nel tennis oggi siamo più tedeschi dei tedeschi e praticamente gli unici ad avere la fila per entrare nella Nazionale di Coppa Davis. Pensiamo alla nostra industria e alla nostra manifattura: di Sinner ne abbiamo pochi, ma da primi 100 in classifica ancora tanti. Fanno faville le realtà coordinate e gestite con programmazione in stile… tennistico. Vivono alla giornata o perdono il treno dell’internazionalizzazione quelle affette da un individualismo soffocante. La Ragione
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L’Italia ha vinto la terza Coppa Davis facendo la cosa più complicata per chi conosce il mondo dello sport: trionfare da favoriti. Questo vivere con agio il ruolo di “primi della classe”, non è una caratteristica peculiare di noi italiani. A ben vedere, abbiamo una presidente del Consiglio e una leader dell’opposizione che hanno amato presentarsi come underdog o invisibile, viviamo i nostri più importanti successi e traguardi come una grande sorpresa che facciamo al mondo e tanto per cominciare a noi stessi. Possiamo limitarci a ricordare la stupefacente campagna vaccinale durante il Covid o il colpo di reni per entrare da subito nell’Euro. Il punto è che godiamo nel raccontarci proprio così: quelli dello stellone, della genialità sempre pronta a salvarci sull’orlo del precipizio, la comunità fatta di una somma di individualità. Per chi non segue o non seguiva il Tennis, la dimensione dell’Italia oggi è quella propria degli Stati Uniti d’America al loro meglio, nelle ere segnate da John McEnroe, Andre Agassi e Pete Sampras. Nulla a che vedere con fenomeni che hanno fatto la storia di questo sport, come Federer o Djokovic, mai neppure lontanamente appoggiati da un movimento paragonabile al nostro di oggi. Solo la programmazione e un intelligente utilizzo delle risorse a disposizione può aiutare a capire - al netto del talento - come si possa essere arrivati a questi risultati. Ci sono due realtà che vogliamo porre alla vostra attenzione: si è individuato un asset che potesse fungere da volano per l’intero movimento negli Internazionali di Roma. Questo ha generato un giro d’affari e d’attenzione da ridistribuire non a pioggia - pratica sempre inutile e pericolosa - ma in modo mirato. Eccoci alla seconda realtà: l’individuazione e il sostegno dei più meritevoli. Nello sport è più facile, perché hai bisogno di chi sia in grado di vincere, ma il concetto di fondo ha un’applicazione generale: se vuoi competere ai massimi livelli internazionali, fare selezione non è una mancanza di riguardo per i meno dotati ma un obbligo morale nei confronti di chi può dare di più e sarà chiamato a sopportare le maggiori pressioni. Questo, a cascata, produrrà una maggiore disponibilità economica e di attenzione mediatica nei confronti di un intero movimento o settore. Altro elemento è la demolizione della retorica secondo la quale si è “condannati” a far bene certe cose e meno altre. Nello sport, gli italiani sono i genialoidi che rendono affascinante l’anarchia ma nel tennis oggi siamo più tedeschi dei tedeschi e praticamente gli unici ad avere la fila per entrare nella Nazionale di Coppa Davis. Pensiamo alla nostra industria e alla nostra manifattura: di Sinner ne abbiamo pochi, ma da primi 100 in classifica ancora tanti. Fanno faville le realtà coordinate e gestite con programmazione in stile… tennistico. Vivono alla giornata o perdono il treno dell’internazionalizzazione quelle affette da un individualismo soffocante. di Fulvio Giuliani
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Ma quanto vale un'emozione? Gli Europei di calcio 2024, giunti ai quarti di finale, offrono uno spaccato vivido delle emozioni umane. Speranze e delusioni, gioia o sconforto, illusioni e disillusioni (e noi italiani ne sappiamo ben qualcosa). Il calcio unisce e divide, creando un'atmosfera densa di attesa e partecipazione, le nazionali alla fine fanno più presa dei singoli club. E' il mercato, bellezza, e anche su questo dovremmo dire due parole. La vittoria celebra il talento e la perseveranza. Qualcuno ci vede anche dell'orgoglio nazionale o, più facilmente per un gioco di numeri, il disonore di ellenica memoria (che poi i giocatori lavano via con un po' di tequila tra Ibiza e Formentera). Alcuni calciatori diventano simboli di dedizione, altri di indolenza. Le immagini dei giocatori che sollevano la coppa rimangono nella memoria collettiva. Chi vince brinda e chi perde spiega (e anche qui siamo maestri indiscussi). Ma gli Europei sono anche una vetrina per il marketing e il personal branding dei giocatori. Ogni azione sul campo, ogni intervista e gesto può essere sfruttato per costruire un'immagine pubblica. Prestazioni notevoli possono catapultare un giocatore nell'élite del calcio, aumentando il suo valore di mercato e attirando sponsorizzazioni. I social media amplificano questa percezione, con post che diventano strumenti per accrescere la popolarità, contenuti virali sull'onda di un'agenda lì tutta da sfruttare. Piangere o ridere, togliersi una maglia, colorarsi le scarpe può valere una conquista di soldi, umanità, approvazione o disapprovazione. E questo lo sanno tutti, protagonisti in primis. La ricerca dell'autenticità cozza contro il capitalismo sportivo. Non dimentichiamocelo noi, come non se lo dimenticano loro. E che vinca il migliore... in tutti i sensi!
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