IL MONUMENTO A SAN FRANCESCO IN PIAZZA RISORGIMENTO A MILANO
Vi proponiamo la storia, tratta dall'opuscolo, del monumento nazionale a San Francesco in Piazza Risorgimento, pubblicata per le celebrazioni tenutesi il 4 ottobre 2024 in collaborazione con, ed edita da, Opera San Francesco
Oggigiorno è difficile immaginare la Milano di un tempo. Doveroso è quindi, prima di narrare la storia del monumento a San Francesco, fornire qualche dettaglio sul Monforte, un quartiere tutto sommato assai recente se paragonato alla millenaria storia della nostra città.
Con un po’ di immaginazione torniamo alla Milano dei primi anni post unità; diciamo intorno al 1863.
Giungendo da Corso Monforte, con San Babila alle spalle, non saremmo arrivati in una piazza (oggi Del Tricolore), ma ci saremmo imbattuti in una scalinata che ci avrebbe condotto sulla romantica passeggiata alberata dei bastioni (mura spagnole). La città finiva lì. Si, da quel punto elevato avremmo visto qualche sporadica costruzione nelle immediate vicinanze: poche case, qualche osteria e la Stazione Ferroviaria di Porta Tosa, oggi del tutto scomparsa. Ma per il resto, tante cascine, piccoli borghi, rogge, canali, fontanili, campi coltivati e campagna a perdita d’occhio.
Qualche anno più tardi, 1878, nell'allora Viale Monforte (oggi Viale Piave) sarebbe sorto Il Convento dei Cappuccini. La nostra storia ha inizio proprio in quel luogo.
Industriali ambizioni e una popolazione in costante aumento non consentivano ormai più a Milano di rimanere confinata in cinquecenteschi baluardi. Nel 1889, con il Piano Beruto, la città decise di estendersi oltre i suoi secolari confini. Nuovi quartieri e nuove vie di comunicazione vennero aperte mentre i vecchi bastioni poco alla volta sparivano. Tuttavia, memori di un passato ancora restio a cedere il passo al progresso, un’ultima porta fu aperta tra le vecchie mura: la Porta Monforte(1889). Due semplici caselli daziari, di breve vita, che cesseranno di esistere neanche trent'anni più tardi. Nel frattempo Milano si espandeva e dalla vecchia porta, chiamata ormai Piazza, o Piazzale Monforte, partì un ampio viale alberato, battezzato nel 1893 come Corso della Concordia. Un nome astratto, come ci riferisce Ottone Brentari nella sua Toponomastica Milanese di fine Ottocento, che ha reso possibile il Risorgimento, artefice a sua volta dell’Indipendenza della patria… Suona familiare? L’adiacente piazza e il successivo corso presero questi nomi nello stesso anno.
Nel 1915 P. Giannantonio Agosti da Romallo ebbe per primo l’idea di erigere a Milano un monumento nazionale a S. Francesco ma, a causa della guerra, la proposta cadde nel dimenticatoio. Sei anni più tardi(1921), P. Giannantonio ci riprovò; venne istituito un Comitato nel 1922 su licenza di P. Innocenzo Ceriani da Samarate. Di lì a quattro anni si sarebbe celebrato il settimo centenario della morte del Santo Patrono d’Italia e non si poteva più tergiversare. Le prime riunioni del comitato si svolsero presso la dimora del conte Annibale Anguissola e come segretario fu nominato il conte Vincenzo Negri da Oleggio. Un anno dopo, per la precisione il 6 marzo 1923, il progetto fu ufficializzato dalla stampa e nel 1924 quest’ultima rendeva noto che il monumento sarebbe sorto in Piazza Risorgimento.
Come sempre non mancarono i detrattori che non apprezzarono né la città, né l’ubicazione: il continuo via-vai di tram e molte fabbriche (dobbiamo tener presente che ai tempi la zona era periferica) mal si sposavano con la meditativa quiete della natura tanto apprezzata da Francesco. Tuttavia questo voluto contrasto fu difeso non solo dai promotori ma anche dal cardinale di Filadelfia e da Papa Pio XI: “La mite figura del poverello d’Assisi nel cuore della metropoli lombarda, dove più accesa è la febbre del lavoro e più intenso il ritmo della vita materiale di nostra gente, sarà certamente […] una delle più energiche affermazioni dello spirito sulla materia, dell’eterno sull'effimero…”
Opportuno è ricordare che in uno dei suoi ultimi pellegrinaggi San Francesco, accompagnato dal fido Bernardo da Quintavalle, ma qui la storia sconfina nella leggenda, non fosse del tutto estraneo alla nostra città e che pose personalmente le basi dell’ordine Francescano meneghino; pare soggiornò presso il convento della chiesa longobarda di Santa Maria di Fulcorina (dalle parti di Piazza Affari), soppressa nel 1798 e in seguito demolita.
Una volta stabilito che il materiale per il monumento avrebbe dovuto essere il bronzo e non il marmo, perché non idoneo all'opera corruttrice del clima milanese, si poneva pertanto una questione ben più importante e spinosa, le finanze per costruirlo. Il comitato procedeva a rilento e la situazione venne presa in mano da una figura di riferimento dell’Ordine Francescano milanese: Fra Cecilio, colui che fonderà l’Opera San Francesco nel 1959. Egli scrisse per due volte all'allora Presidente del Consiglio, Benito Mussolini, per tentare di ottenere i 150 quintali di bronzo necessari alla statua ma la richiesta venne respinta. Consegnò allora una lettera da leggere durante il Capitolo provinciale del 1925 a P. Donato Antonini da Malvaglio ed ottenne da P. Valdimiro Lecchi, il nuovo P. provinciale, un maggiore coinvolgimento da parte dei frati cappuccini. Occorreva comunque una certa sicurezza economica di partenza e questa venne trovata nel Conte Guglielmo Guerrini di Firenze, che stanziò una discreta somma.
Nei quotidiani del tempo si legge che se tutti i 42 milioni di italiani avessero contribuito con un soldo ciascuno si sarebbe raggiunta la cifra necessaria, circa due milioni, senza offendere l’umile povertà da cui nessuna glorificazione di S. Francesco può andare disgiunta. Certo non mancarono benefattori, piccoli comuni, comitati e gente semplice che versarono spontaneamente ciò che potevano ma ancora non bastava; vennero anche lanciati appelli di partecipazione agli esercenti del Monforte e di Porta Vittoria. A tal proposito rimane di estremo interesse la fedele testimonianza lasciataci da Fra Cecilio. Uscito dal convento si fece carico dell’arduo compito di domandare la questua porta a porta per tutta Milano e in alcuni paesi della provincia: “Dalla metà febbraio 1926, che incominciai il lavoro di propaganda in città, alla fine del marzo 1927, che terminavo, lavorai 200 giornate intere, comprese le 5 giornate spese a Monza e una a Inzago. Sono andato in 7900 portinerie. […] Trovai più di 1900 palazzi che assolutamente non mi ricevettero. Più di 1850 di quelle case che, pur non avendomi proibito di entrare, non vi raccolsi che dai zero, ecc., ecc. Nelle altre 4250 porte vi raccolsi Lire 130.938. Più dalle stesse, per mio interessamento, andarono direttamente al Comitato Lire 6.000, di cui ne riscontravo i nomi nelle pubblicazioni del Comitato”.
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Fu un duro e molto spesso ingrato lavoro ma infine la caparbietà e la dedizione di Fra Cecilio vennero ricompensate. Intorno, alle 11:30 del 24 aprile 1926, venne posta finalmente la prima pietra in Piazza Risorgimento. Forze dell’ordine, scolaresche e una moltitudine di cittadini, allietati dalla banda musicale dei tranvieri, assistettero alla cerimonia. Intervennero l’arcivescovo di Milano, Eugenio Tosi, il presidente del Consiglio, Benito Mussolini, l’on marchese Giuseppe Capitani d’Arzago, a nome del comitato nazionale francescano e il senatore/sindaco Luigi Mangiagalli (ultimo sindaco di Milano prima del Ventennio dei Podestà).
L’incarico di plasmare il monumento fu affidato a Domenico Trentacoste, già artefice di mirabili opere come La Derelitta e Caino mentre il basamento, raffigurante nelle due formelle (sempre del Trentacoste) S. Francesco mentre riceve le stimmate e compie opera di pacificazione, agli architetti Piero Portaluppi (che si era da poco occupato dei decori e degli arredi del Diurno a Porta Venezia e, di lì a breve, dell'attuale risistemazione del sagrato di Piazza del Duomo) e Paolo Gadda.
Durante la cerimonia della prima pietra Trentacoste, che in quel periodo stava già lavorando alla scultura a titolo totalmente gratuito, rimase profondamente affascinato dalla figura e dalla personalità di fra Cecilio; l’opera era già a buon punto ma il volto ed altri elementi ancora faticavano ad affiorare. Domandò quindi al P. provinciale di poter avere come modello Fra Cecilio nel suo studio di Firenze. Quest’ultimo lo raggiunse il 23 maggio del 1926, rimanendo poi per i tre giorni successivi. Di fronte allo spumeggiante entusiasmo dell’artista che vedeva in lui molti similitudini con S. Francesco, Fra Cecilio rimase imbarazzato e nella sua savia modestia così ci riferisce: “Mi scusi, signor professore, questa volta ha proprio commesso un grave sbaglio nel chiamarmi per un sì grande compito. Per esprimere quanto lei desidera bisognerebbe che io avessi quello spirito di unione con Dio che aveva S. Francesco…”
Questa illuminata affermazione non fece altro che ispirare e motivare ancor di più il Trentacoste che si mise a lavorare senza posa al monumento. Il 14 maggio del 1927 il Corriere della Sera titolava: Piazza Risorgimento è pronta a ricevere San Francesco. Una vasta gradinata di granito attendeva solo di accogliere il bronzeo monumento in procinto di fusione a Pistoia. Il 28 ottobre dello stesso anno l’imponente figura di San Francesco, con braccia alzate invitanti alla pace (5,53 metri da sola per un totale di 23 metri con il basamento), veniva solennemente celebrata dalla città di Milano e dal resto d’Italia. In una soleggiata giornata, una festante folla e svariate autorità come il senatore Cesare Nava, il podestà Ernesto Belloni e l’Arcivescovo Eugenio Tosi, inaugurarono la statua più solenne ed emblematica al Santo Patrono d’Italia.
Tali celebrazioni scemarono negli anni; un tempo il 4 di ottobre era festa nazionale. Ancora, nel 1947 dopo gli indicibili orrori della guerra vissuti da Milano (il Monforte fu martoriato dai bombardamenti), si celebravano in pompa magna i vent'anni dall'inaugurazione del monumento. Con il boom economico degli anni ’50 e ‘60, l’inerte euforia del benessere fece pian, piano dimenticare a Milano e all'Italia uno degli universali ammoniti di San Francesco: dov'è carità è sapienza.
Oggigiorno nel capoluogo lombardo, dove la moderna e remunerativa comunicazione distorce per convenienza l’io col noi, il messaggio di Francesco stenta a sopravvivere nella sua più pura accezione. Ma un tale, potente ed eterno pensiero non potrà mai venir meno in una città, che per quanto abbia fatto del pragmatismo la propria essenza, ha sempre dimostrato una solidarietà verso il prossimo che trascende i secoli e le umane inclinazioni.
Nell'odierno e nebuloso contesto di grandi cambiamenti sociali, economici e climatici, dove forse Milano è più vittima che artefice, un’ultima considerazione è d’obbligo. Durante la grande tempesta del 25 luglio 2023 abbattutasi impietosamente sulla nostra città, il Monforte fu tra le zone più colpite. A stento il ricordo dei secolari alberi crollati sotto la furia delle intemperie trattiene le lacrime. Reca grande conforto voler credere che Francesco, con le sue braccia protese verso il cielo, vegliò sugli abitanti del quartiere; soprattutto sugli ultimi che, senza un tetto sicuro, si ritrovarono alla mercé di quel terribile evento meteorologico.
Per propenso destino, casualità o semplice fortuna non vi furono né vittime, né feriti. Oppure, se preferite, si trattò di un miracolo di San Francesco che protesse e salvò tutti noi.
Ad oggi il monumento è impacchettato per restauro, in modo da togliersi di dosso la polvere del tempo...O, nel nostro caso, i depositi dell'inquinamento. Rivedrà la luce nel 2026 in occasione delle celebrazioni per gli ottocento anni dalla nascita di San Francesco.
...E infine, una nota umoristica tipicamente meneghina
Memori, forse geneticamente, di un’impietosa storia che ha visto la nostra città spesso al centro di distruzioni e stravolgimenti, i milanesi hanno sempre adottato l’ironia come difesa. A Fine Ottocento, ad esempio, chiamarono il tram funebre che trasportava salme al Cimitero Maggiore, La Gioconda. Dopo che il monumento a San Francesco venne inaugurato, con tre dita alzate nella mano destra e cinque nella sinistra, non ci volle molto perché fosse riappellato “Cinch e trii, vòtt: cinch che lavòren e trii che fan nagòtt”. Cinque e tre, fanno otto: per cinque che lavorano, tre non non fanno niente. Riferimento squisitamente milanese per coloro che, invece di tirarsi su le maniche, fan finta di lavorare. Un bonario, sempre intraprendente e del tutto scevro di malizia aforisma meneghino, che probabilmente avrebbe fatto sorridere San Francesco, al quale certo non mancava un sottile ed arguto senso dell’umorismo per stemperare le tribolazioni della vita terrena.
Riccardo Rossetti in collaborazione con Opera San Francesco-Riproduzione riservata