La mejo parlata

La mejo parlata

La mejo parlata è quel dialetto "romanesco" che sentivo parlare da bambina e che quasi non esiste più. E forse quel "quasi" è solo un piccolo spunto di nostalgia, messo lì con la speranza di sbagliarmi. C'era una volta, nella parlata romana, un'ironia pacata e meditata, quella lentezza consapevole che chi è troppo giovane e non l'ha mai sentita per la strada con le proprie orecchie, può ritrovare solo in qualche vecchio film, in certe espressioni, collane di parole preziose e sornione, messe nella vetrina della vita da gente come Aldo Fabrizi o Anna Magnani. Il romanesco di una volta conservava la quieta, sintetica, autorevolezza di un editto imperiale. Si fa così, e basta. In tre parole si stabiliva un dogma, che fosse quale cicoria è meglio ripassare in padella o quale giudizio, di solito appellabile grazie alla lungimiranza innata del ditirambo dei sette colli, meritasse il reo di piccolezza e qualunquesimo da stracciaroli senza scampo che millantava romanità senza diritto. Quella cadenza romana di una volta, nell'apparente grossolanità di certo ritmo, rivelava le radici lontane di un'aristocrazia semidivina, tramandata da quel Romolo assurto in cielo non si sa come, ma certamente ivi approdato su un carro celeste a stabilire che l'Urbe vince sempre. L'Urbe vince perché il suo destino è quello e non si discute, il destino di traghettare ai posteri le civiltà dell'Ellade, la filosofia, un po' rivista e corretta certo, l'età d'oro di Pericle portata con doviziosa generosità oltre ogni confine immaginabile, oltre ogni limes. E quegli accenti, residui di latino e voci antiche, che neniavano impudenti nelle voci del calzolaio sotto casa, del ragazzetto di bottega che portava il caffè alle segretarie degli uffici, dove rimbombava il ticchettio delle macchine da scrivere; nella grandiosa, magnificante descrizione che il fruttarolo faceva delle sue zucchine e dei carciofi in vendita a Campo de' Fiori; nel fischio serpentino e repentino dello "scopino" (e dove stanno più 'i scopini) al passaggio della bella del quartiere; nei nomi della gente, tutti riaggiustati alla romana, tagliati e troncati "pe' fa' prima" (prima de che? 'ando' cori, che la vita è un lampo lo stesso) , 'a Lucia' , France', Giuse', o infiorettatti di suffissii innamorati: Nannarella, Ninetta, Giggino, o nei soprannomi, che erano più validi di una carta d'identità, incollati per sempre come una condanna o una santificazione: er Patata, er Nero, 'er Dritto, 'a Belli capelli, er Sòla, er Mago, er Mejo... Nella parlata romana di una volta le parolacce quasi non esistevano, io mai le sentii in casa, né fuori, non servivano, bastava uno sguardo e una frase appuntita e il discorso era chiuso. C'era una grande quantità di vocaboli, un lessico diffuso e opulento che definiva ogni circostanza con l'essenzialità di un fulmine parlante. Quella parlata che risuonava da Trastevere a Testaccio, da Pigna a Monti, a Monteverde (quello Vecchio, er Novo venne dopo), quella parlata lenta come il fiume (l'unico, il Tevere biondo e ingannatore, coi mulinelli e la Cloaca massima che ancora funge) quella parlata è un'eco che non muore, ma che risuona piano, sempre più lieve, sempre più lontano.

Carla Vistarini

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