Una analisi da cui partire

Sono ormai anni che in Italia stiamo assistendo ad un processo di deindustrializzazione con conseguente riduzione dei posti di lavoro. I recenti casi di industrie finite in mani straniere, che decidono di abbandonare il bel paese, ne sono l’esempio. Non basta  sottolineare il fatto che la causa di ciò siano l’eccesso di tassazione e burocrazia, che pure ci sono. Fossero solo queste però, il rimedio sarebbe alla nostra portata. Il processo a cui stiamo assistendo viene da lontano ed attiene ad una serie di cause che potremmo definire strutturali.  La prima causa si riferisce al tipo d’impresa che si è sviluppata soprattutto al nord nell’immediato dopoguerra. Il fervore di tanti imprenditori intraprendenti, nella maggior parte dei casi, non è andato oltre all’attività artigianale, in quello che oggi chiamiamo: piccola impresa. Sovente quelle di maggior successo hanno figliato altre ditte artigianali grazie all’intraprendenza di lavoratori che, emancipandosi dalla casa madre, hanno costruito il loro orticello;  questo ha contribuito a consolidare il grande numero di piccole imprese che ci contraddistingue.

Proprio questa tipologia d’impresa ha fatto sì che le nostre eccellenze siano andate verso settori di non alta tecnologia: scarpe, abiti e ristorazione soprattutto, in qualche caso attività sinergiche alle poche grandi industrie.

Certo abbiamo qualità, ma guardiamo in faccia alla realtà, la crisi attuale è strutturale. L’evoluzione tecnologica e la globalizzazione ci hanno spiazzati.

La nostra intraprendenza, è vero, ha consentito la conquista di clienti, mercati, ma che  oggi,  sono appannaggio di chi ha costi di produzione più bassi dei nostri, di chi dispone di maggiori mezzi, di chi sa cavalcare meglio i nuovi canali di distribuzione. Si pensi al nostro ritardo di utilizzo di internet, per esempio.

La seconda causa, più grave, dipende dal ricambio generazionale. I nuovi imprenditori, consolidatisi negli anni settanta /ottanta, sono caduti in una trappola tutta italiana. In una società come la nostra, dove i valori della libera iniziativa non hanno mai sfondato del tutto, dove il posto fisso è ancor oggi il più ambito, l’onorabilità sociale se la sono accaparrata soprattutto i ruoli borghesi, le occupazioni impiegatizie. Così le nostre scuole hanno sfornato migliaia di diplomati, laureati in lettere e filosofia, dottori in legge o in scienze politiche. Una classe politica, che ha basato sempre la propria fortuna sul clientelismo, ha innescato una bomba ad orologeria di cui oggi paghiamo le conseguenze.

Questo modello sociale ha coinvolto anche i figli dei nostri imprenditori che sono stati ripagati da una generazione di eredi poco interessati all’impresa di famiglia. Il ricambio generazionale quindi non c’è stato. A tutto questo si aggiunga che la persistenza di imprese relativamente piccole, non ha consentito la nascita di una classe manageriale adeguata.  Tutti questi fattori hanno generato un atteggiamento nefasto, infatti questo tipo di imprenditoria, senza grandi visioni sul proprio futuro, ha generalmente evitato di investire nella propria attività i profitti derivanti dal lavoro. A dire il vero in questo anche sospinti proprio dai lacci fiscali e burocratici del paese.Sentiamo dire che l’Italia è il secondo paese al mondo per risparmio accumulato, per ricchezza immobiliare delle famiglie. Questa ricchezza accumulata non è tutta produttiva e questo fatto  sostiene la terza causa. Il nostro risparmio si è indirizzato soprattutto verso il sostegno del debito pubblico, in questo favorito da una generale mancanza di cultura finanziaria ed economica.

Si tenga conto inoltre che anche quando il risparmio si fosse indirizzato verso attività produttive, esso non avrebbe generato una cospicua crescita delle opportunità di lavoro. Questo è facilmente spiegabile. La finanza vive di risultati immediati. E stante il grande numero di piccole imprese, che come abbiamo visto, hanno per lo più a capo di esse, una famiglia, investire contro questa cultura avrebbe poco senso visto che questo prevede programmi  d’investimento a medio lungo termine per le necessità di riammodernarsi, per investire in ricerca, per conquistare nuovi mercati, per investire in nuovi prodotti.


Inoltre la finanza non conosce un territorio, ma conosce il profitto, ovunque esso sia.

Perché investire in Italia quando da noi i rischi sono maggiori?

Alcune nostre qualità, innegabili, hanno consentito in alcuni settori un successo planetario. Ecco perché le nostre imprese sono state preda succosa per gruppi stranieri, ricchi di risorse. Ma ciò che interessa loro sono solo il marchio ed il mercato conquistato, non la produzione  che sarà inevitabilmente spostata in paesi con costi del lavoro minori.

Il mondo corre, ma noi no purtroppo. Abbiamo comunque risorse che dovremmo imparare a sfruttare meglio, esse sono la bellezza del paese e l’arte lasciataci dai nostri antenati.

Potremmo imparare a sfruttare tutto questo ben di dio. Occorrerebbe un salto di qualità. E’ ora di puntare sul turismo.  A questo punto sarebbe necessaria  una visione lungimirante che i nostri politici, purtroppo, non hanno dimostrato di possedere. Infatti per generare posti di lavoro e ricchezza, in questo settore, bisognerebbe puntare sulla libera iniziativa.

Una ricetta ad esempio: neutralizzare fiscalmente, per un periodo lungo, tutte le nuove intraprese.  Abolire gran parte  della burocrazia, aiutare finanziariamente i singoli progetti, investire in opere strutturali che ne consentano la facile fruizione da parte dei turisti.

Il tutto salvaguardando l’ambiente, l’unica condizione. Cioè non consentire nuove costruzioni, ma ristrutturazioni.

Ci sono nel mondo esempi di grande successo come Airbnb, che stanno a testimoniare come si possano coinvolgere le persone in business vecchi con modalità nuove.E sono e saranno i giovani a scoprirle.

Abbiamo grandi potenzialità, basta crederci, basta agire.


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