Tlon

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Editoria: libri

Milano, Lombardia 25.524 follower

Scuola di Filosofia di Maura Gancitano e Andrea Colamedici. Casa editrice, libreria teatro, eventi, formazione.

Chi siamo

Tlon è una scuola di filosofia e immaginazione, una casa editrice, una libreria teatro, un'agenzia di eventi e di formazione. Fondata da Maura Gancitano e Andrea Colamedici, elabora e offre strumenti per la fioritura personale. Tlon è specializzata nell'ideazione e nell'organizzazione, in Italia e all'estero, di: - conferenze e conferenze spettacolo; - seminari (anche online); - corsi di formazione e consulenze aziendali; - dibattiti e altri eventi culturali. Pubblica libri di saggistica e narrativa e, in collaborazione con Audible, realizza podcast dedicati alla filosofia e alla letteratura ideati e condotti da Maura Gancitano e Andrea Colamedici. Gli obiettivi di Tlon sono: - intercettare e raccontare i mutamenti in atto nella società e nell'essere umano; - fornire strumenti per la fioritura personale; - trasmettere l'urgenza e il piacere di porsi domande; - coniugare un attento sguardo al presente con l'immaginazione del futuro, personale e collettivo.

Sito Web
http://www.tlon.it
Settore
Editoria: libri
Dimensioni dell’azienda
2-10 dipendenti
Sede principale
Milano, Lombardia
Tipo
Società di persone
Data di fondazione
2016
Settori di competenza
Formazione, Scuola di Filosofia, Editoria, Organizzazione di eventi, Consulenze aziendali, Fioritura personale e Società e cultura

Località

Dipendenti presso Tlon

Aggiornamenti

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    Esce oggi in libreria (e nei prossimi giorni in edicola insieme al Corriere della Sera) “L’algoritmo di Babele”, che ho scritto con l’esperto di media digitali Simone Arcagni. È un viaggio tra letteratura, mito e filosofia per raccontare una storia culturale dell’IA, e capire quali sogni e terrori ci hanno portato a inventare il futuro. Buona lettura!

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    Viviamo sommersi da un diluvio incessante di contenuti culturali. Ogni mattina ci svegliamo e troviamo decine di nuovi libri sugli scaffali delle librerie, nuove serie TV che debuttano sulle piattaforme di streaming e al cinema, album musicali che sgomitano per conquistare la nostra attenzione già frammentata. Il mondo della cultura è diventato una catena di montaggio impazzita, che produce senza sosta e senza chiedersi se c’è davvero qualcuno dall’altra parte in grado di assorbire questa valanga di stimoli. Gli artisti sono intrappolati in questo vortice produttivo. Il mercato li spinge a pubblicare con ritmi sempre più serrati, a mantenersi sempre presenti e rilevanti. Un romanzo di due mesi fa è già considerato vecchio, un album dell’anno scorso è praticamente archeologia. Questa pressione alla produzione continua ha definitivamente eroso il tempo necessario per la riflessione, per la maturazione delle idee, per quel processo lento e inefficiente che è la creazione artistica. E noi, dall’altra parte, ci troviamo paralizzati dall’abbondanza. Accumuliamo liste infinite di libri da leggere, serie da vedere, musica da ascoltare. Ci portiamo addosso un senso di colpa culturale cronico, come se fossimo sempre in debito nei confronti di qualche opera che non abbiamo ancora consumato. Gli artisti sono costretti a produrre prima di essere davvero pronti, e noi consumiamo senza davvero assaporare. La cultura è la vittima prediletta della logica del consumo compulsivo, della necessità di generare costantemente novità per alimentare un mercato globale insaziabile. Non si tratta di opporsi alla corrente né di lasciarsi trasportare passivamente: si tratta di imparare a vivere tra i detriti di questo naufragio. Di accettare che scaviamo tra infinite stratificazioni di contenuti alla ricerca di qualcosa che forse non esiste più: il tempo lungo della creazione, il respiro profondo dell'arte, la sedimentazione lenta del significato. Forse è questo il nostro destino: abitare le macerie di un’idea di cultura che non tornerà, e trovare in queste rovine una qualche bellezza.

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    Prima che esistesse l’intelligenza artificiale, c’era già il suo racconto. “L’algoritmo di Babele”, che ho scritto con Simone Arcagni per Solferino, raccoglie storie e miti dell’intelligenza artificiale attraverso i suoi profeti: mistiche, filosofi, letterati, scienziate e poeti, da Omero a Kafka, da Borges a ChatGPT. Da oggi è in preordine. Dal 5 novembre sarà in libreria e in edicola con il Corriere della Sera.

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    Se vogliamo davvero parlare di educazione sentimentale collettiva, dovremmo partire dalla vulnerabilità: riconoscere quanto profondo sia il bisogno di sentirsi amati, di amare secondo le proprie inclinazioni, di far fronte alle tempeste emotive e pulsionali, e quanto sia difficile trovare le parole per ciò che è, per natura, sfuggente e ineffabile. Al contrario, sembra che alla società tutto questo non interessi, e che anzi le nostre insicurezze diventino una misura negativa del nostro valore. Sembra che parlare di fioritura collettiva sia chiedere troppo. La conseguenza di questa indifferenza è ciò di cui parlava Hannah Arendt già negli anni Cinquanta: «vivere insieme nel mondo significa che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno» che permette di non cadersi addosso a vicenda. In effetti, questo oggi accade di continuo: rovesciamo gli uni sugli altri le insofferenze, il disprezzo, la cattiveria, e dimentichiamo che il tratto fondante della condizione umana è l’imperfezione, non la normalità. Ecco perché dovremmo provare a parlare di educazione sentimentale pubblica non come prescrizione, ma secondo un’etica del discorso che sia sincera, che abbia come scopo il tentativo di vivere insieme agli altri senza farsi troppo male. Per essere clementi con noi stessi, basterebbe ricordarsi che in ogni secondo siamo attraversati da forze, pensieri, energie, credenze, reazioni automatiche, stimoli di cui non siamo consapevoli. Non è colpa nostra tutto ciò che di più oscuro e irrisolto ci attraversa, dunque, ma se vogliamo vivere una vita buona insieme agli altri, una vita che possa essere chiamata vita, dobbiamo considerare che il governo di questa materia incandescente che sono i sentimenti è una nostra responsabilità.

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    Imparare a gestire il carburante delle emozioni non è una procedura uguale per tutti. Educare alle relazioni non significa creare un decalogo di comportamenti da rispettare, ma rendere la persona consapevole di chi è, di cosa desidera e di come può interagire con il resto del mondo. Per vivere insieme agli altri senza farsi troppo male. "Erotica dei sentimenti" è il nuovo saggio di Maura Gancitano. Esce il 17 settembre per Einaudi, e chi lo preordina riceverà con il libro un regalo speciale in esclusiva: "Pulsione", un podcast sull'educazione sentimentale.

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    Chiamiamo ironicamente (ma neanche troppo) “vacansia” quella sensazione di inquietudine che accompagna sempre più persone nei momenti di ferie e di pausa. È il paradosso moderno per cui, nonostante ci si trovi fisicamente a riposo o in vacanza, la mente continua a lavorare per molti giorni e a preoccuparsi, rendendo difficile abitare un altro ritmo. Vacansia è il riflesso della nostra società iperconnessa in cui il confine tra lavoro e tempo libero si fa ancora più sottile, e sempre più persone (tra quelle che possono permettersi di andare in vacanza) non smettono davvero di lavorare, pur avendo teoricamente interrotto l’attività lavorativa. Le notifiche, le email di lavoro, l’onnipresente pressione sociale ad avere il controllo sulla propria vita contribuiscono a impedire una reale sconnessione dai doveri lavorativi e sociali. Come possiamo liberarci della vacansia? La risposta potrebbe risiedere nell’invito alla disconnessione privata, ma non basta: se la pressione è sociale, la soluzione non può essere soltanto individuale. È necessario un cambiamento culturale e collettivo: dobbiamo ripensare il nostro rapporto con il lavoro e con il tempo libero, promuovendo una cultura che valorizzi realmente il tempo vuoto. La società nel suo insieme deve riconoscere e rispettare il diritto al riposo. Questo significa cambiare le nostre aspettative collettive: non dobbiamo più vedere la disponibilità costante come un segno di dedizione, ma piuttosto come un pericolo per la salute mentale. Solo attraverso un cambiamento culturale possiamo provare a superare la vacansia e riscoprire il vero significato dell’ozio e del riposo.

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    Per molti è sempre più strano scrivere sui social, pubblicare un post indignato o accalorato, educativo o ironico, divulgativo o derisorio. È diffusa una sorta di nausea; è finito l’hype da social, la frenesia della novità, la voglia di esserci e mostrarsi a ogni costo, l’urgenza di partecipare attivamente alla vita online, al “tema del giorno” su cui ognuno svolge il proprio compitino. Ed è diventato in pochissimo tempo tutto già vecchio e tutto già visto. Persino l’ostentazione del successo degli influencer, che sembrava intramontabile, sta nauseando la gente. E come un Dio smette di esistere senza le preghiere dei fedeli, così un influencer smette di esistere senza i like dei follower. Neanche le battaglie sociali tirano più, sia quelle sacrosante che quelle utili solo al proprio engagement. Dopo anni in cui la nostra quotidianità è stata scandita da notifiche, condivisioni e commenti, i social sembrano aver raggiunto per molti un punto di non ritorno. Stiamo vivendo i postumi di un’indigestione sociale che non è solo frutto della quantità di tempo speso online, ma soprattutto della qualità delle interazioni: gli spazi digitali si sono finti piazze ma sono stati arene di battaglie, camere dell’eco e vetrine per narcisismi, in cui l’altro ci ha fatto da specchio perché esistevamo solo noi. L’indignazione, anche quella sincera e motivata, si trasforma sempre più in uno sfogo effimero, che si perde nel rumore di fondo di miliardi di altre voci. L’educazione e la divulgazione, dovendo ridurre sempre più il contenuto per venire incontro all’algoritmo e alle capacità attentive calanti della massa, si fanno sempre più effimere fino a diventare gassose, impalpabili. Quindi no, non sono (ancora) finiti i social, ma è finito per molti un certo modo di abitarli. E allora vale la pena chiedersi: adesso che si fa?

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    Siamo indotti a far partire la fitta sassaiola dell’ingiuria ogni volta che qualcosa entra in collisione con le nostre credenze, e ciò anche a causa della condizione di performance perenne a cui tutti siamo costretti. Ci sentiamo forti a chiedere la testa di chi sbaglia. Viviamo in uno stato collettivo di fastidio e rabbia costanti che non vedono l’ora di esplodere, e che ogni mattina cercano una vittima da sbranare. Possono trovarla in un caso di cronaca, in una vicenda controversa o nel post di un amico. In ogni caso le pulsioni che coviamo troveranno l’occasione per essere vomitate. Abbiamo il dovere di domandarci se i modi della nostra accusa non fomentino, a loro volta, altro odio e altra ignoranza. Ci illudiamo che ottenere lo svergognamento di una persona che ha commesso un errore aiuti a migliorare il clima e a fare giustizia, mentre invece può trasformarci esattamente in quei carnefici che critichiamo. La potenza della macchina del fango online è infinitamente maggiore di quella offline, e in rete è sufficiente avere una quantità minima di informazioni per deliberare in pochi minuti dove sia il torto e dove la ragione, senza dare la possibilità all’accusato di esprimersi, spiegarsi, difendersi. Chiunque può essere fatto fuori da chiunque – più spesso da una massa indistinta di utenti – se compie una performance che di primo acchito appare negativa, sbagliata, controversa. Da qui, una sola grande domanda: quanto a lungo vogliamo e possiamo continuare a vivere online sentendoci addosso in ogni istante i fucili del giudizio? Da “La Società della Performance”, 2018

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    Questa è la copertina del primo numero del New Yorker del 2024, illustrata da Bianca Bagnarelli e dal titolo esemplare: Deadline. Rappresenta una persona al lavoro davanti al computer, a casa, mentre il mondo fuori festeggia l’inizio dell’anno. È il simbolo della condizione di chi non può mai fermarsi dal lavorare perché ha troppe scadenze da rispettare. Originariamente, la deadline era una linea fisica o una recinzione intorno a un campo di prigionia. I prigionieri sapevano che se avessero oltrepassato quella linea i guardiani avrebbero sparato. La deadline era letteralmente una linea oltre la quale c’era il rischio di morte. La “linea mortale” oggi si è trasformata in un simbolo del tempo che incombe nelle nostre vite frenetiche e nella società orientata al risultato. In un mondo dove il tempo è la risorsa più preziosa, la deadline rappresenta la pressione costante per raggiungere i risultati e rispettare gli impegni. E se da un lato c’è il lavoro pagato, che costringe a non fermarsi neanche durante le feste, dall’altro c’è quello di cura, che in questo periodo rappresenta un carico più grande del solito, soprattutto per le donne. Non si può realmente non fare niente e riposarsi se ci sono i figli a casa da scuola o altre persone di cui prendersi cura, perché dal lavoro domestico non si può andare in vacanza. Il tempo è diventato la più implacabile delle prigioni fisiche e mentali, e ci spinge a riflettere sulla costante sfida di equilibrare urgenza e significato nella tessitura delle nostre vite.

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