Don Lorenzo Milani in un libro che è un po' saggio un po' raccolta di racconti

“Ciò che tu stai evocando, sullo spunto della mia biografia, appartiene piuttosto a te. Assumiti dunque le responsabilità che ti competono. Decidi, a tuo rischio e pericolo, in quali altri luoghi i semi che ho distribuito possono essere fioriti. E poi vai a raccoglierli. Ma non tenerli per te. Distribuiscili in giro. Anche se sarete in pochi a conservarli, va bene lo stesso. Noi all’inizio eravamo in sei. I conti si faranno dopo. O già sono stati fatti? Non ti scervellare. Pensa a scrivere.”

Queste frasi sembrano essere sussurrate da Don Milani direttamente nelle orecchie di Affinati, il quale prende in parola l’invito del priore e si mette SULLE STRADE DÌ DON LORENZO MILANI (sottotitolo del libro) per ricostruire i pezzi di una mappa del tesoro, dove il bottino è l’eredità valoriale, pedagogica, politica, esistenziale, sociale di Don Milani.

Il libro si snoda in 20 capitoli ciascuno dei quali ha un titolo dall’afflato poetico e l’indicazione di un luogo.

 I capitoli pari, scritti in prima persona, riportano anche un anno: stanno a segnare il tempo di un itinerario SULLE STRADE in cui Affinati, di cui si capisce la passione per il viaggio di conoscenza, si muove in giro per il mondo per scoprire anche negli angoli più remoti del pianeta quell’umanità che vive ai margini e che, pur nella diversità, ha dei tratti comuni. È come se vivere a Barbiana o nella periferia di Roma o a Hiroshima o a Berlino non faccia poi tanta differenza quando le persone non hanno quegli strumenti minimi di conoscenza che sono indispensabili per l’esercizio dei propri diritti di cittadinanza (e penso qui alle 8 competenze chiave che l’Europa ha identificato come competenze di cittadinanza, e quanto siano ancora lontane dall’essere un patrimonio acquisito della nostra società con il 28% - dati OCSE – di analfabeti funzionali nella popolazione italiana).

Scrive Affinati: “oggi i ragazzi di Barbiana vengono dall’Afghanistan, dalla Nigeria, dal mondo slavo. Hanno alle spalle detriti, macerie e relitti, eppure quando ridono sembrano aver dimenticato tutto. L’esempio di Barbiana torna a imporsi in chiave multiculturale, per favorire una vera integrazione, che dovrebbe combattere anche la fragilità degli adolescenti italiani spesso inebriati dai miti del successo, della bellezza e della sanità”.

Le parole inclusione o pari opportunità non si trovano mai nel testo, dove si parla di mancanza di uguaglianza, tratto comune all’oggi come agli anni del dopoguerra. La formazione per Don Milani, così come per Affinati, dovrebbe rappresentare quello che in sociologia viene definito un ascensore sociale, un’occasione di emancipazione, di messa in libertà, di accesso ad una umanità piena. Ma la missione di Don Milani non si dispiegava solo verso gli ultimi; aveva come bersaglio anche le classi privilegiate: “ciò che davvero contava per lui, quando dava tutto ai poveri, era far nascere in chi fosse stato favorito, dalla sorte o dalla propria intraprendenza, la consapevolezza del vantaggio di cui godeva. Gli bastò conficcare questa spina nel fianco dei signorini.”… E poi ancora “non ho ancora finito di restituire e non finirò mai

Nei capitoli dispari l’autore, parlando in seconda persona in una sorta di dialogo con sé stesso, si mette SULLE STRADE per calcare con i suoi stessi piedi i luoghi in cui Don Milani è vissuto, tra ville lussuose al mare o nelle colline toscane all’inizio della sua esistenza e in piccole parrocchie sperdute sull’Appennino Tosco-Emiliano nella seconda parte della sua vita. E poi c’è Milano, che  sembra fare da trait d’union tra le due vite: un po’ perché è lì che Lorenzo scopre la propria vocazione un po’ perché è nella città lombarda che vivono molto amici suoi intellettuali.

La visione che  Don Lorenzo Milani (e lo stesso Affinati) ha dello studente è lontanissima dall’infelice metafora di recente usata dalla Ministra dell’Istruzione Azzolina: “gli alunni non sono imbuti da riempire”. La funzione che Affinati assegna al formatore/educatore riveste una responsabilità enorme, di carattere politico- umano- etico- sociale: “cosa significa trasformare un bambino in un uomo? Vuol dire mettere in funzione l’essere umano.   Condurlo alla maggiore età, non anagrafica, bensì spirituale. Si tratta di un compito da realizzare innanzitutto con sé stessi, prima che coi propri figli o scolari o, ancora più centralmente, col nostro prossimo… lo si fa per amore dell’uomo”. Che responsabilità! Credo che se queste idee fossero maggiormente diffuse in molti rinuncerebbero in anticipo a questo compito così eccelso e faticoso, dove il maestro si mette in gioco in prima persona, dove è soprattutto la qualità della relazione che fa la differenza, dove il maestro deve “condividere la rabbia e le malinconie dei propri studenti e incarnare il limite che essi non devono superare”. Funzione di calmiere, in tutto simile a quella dei genitori che devono fare da sponda alle correnti e alle piene figliali. Per fare ciò il formatore deve avere acquisito una maturità e una centratura zen, una capacità di rimanere in connessione autentica con le proprie emozioni e contemporaneamente stare in ascolto aperto-attivo-accogliente dell’altro. Ciò che conta è l’incontro umano che si verifica nel qui e ora.

La cartina tornasole per capire se il processo sta funzionando sono gli occhi degli allievi: se brillano o se restano spenti. L’idea della scintilla da infiammare è ricorrente: non vasi da riempire ma fuoco da accendere. È il fuoco del pensiero, del senso critico, dell’autonomia di giudizio, della capacità di analisi (quanto materiale di lavoro ci sarebbe oggi, all’epoca delle fake news, per Don Milani e tutti i docenti che volessero seguire il suo insegnamento).

Il metodo si basava sulla raccolta e analisi attenta dei dati e delle informazioni, sulla scelta attenta delle fonti, e sulla rinuncia all’atteggiamento fideistico: il venerdì era il giorno delle conferenze, a Barbiana si ospitavano testimoni illustri del giornalismo, dello sport, dell’economia, della cultura… chiunque veniva sottoposto al medesimo trattamento: gli studenti si dovevano preparare e dovevano fare domande senza timore o imbarazzi. Anche domande scomode o non scontate, quelle che qualsiasi buon giornalista dovrebbe fare al proprio interlocutore per scavare dentro la notizia, per formarsi un’idea originale.

Dove originale non significa spontaneo: Don Milani non credeva in una scuola dove ciascuno potesse dare libero sfogo ai propri impulsi naturali. Per lui un ragazzo era come una vite che va innestata e potata e curata e sostenuta perché possa dare il prodotto migliore.

L’opera di Don Milani è finalizzata a RIDARE LA PAROLA a chi non l’ha mai avuta, vuoi perché non aveva gli strumenti culturali (avere un vocabolario ricco permettere di mettere in forma i pensieri; e così la povertà lessicale corrisponde anche ad una difficoltà di tradurre in parola i pensieri) vuoi per questioni di potere (gli ultimi non hanno voce o comunque nessuno gliela dà). Affinati stesso, figlio di genitori orfani, dice di non aver avuto le parole. Forse è per questo bisogno di mettere in parola che ha sentito la vocazione di fare l’insegnante/scrittore.

Questo mettere in parola implica cambiare lo sguardo, modificare la prospettiva: non chinate la testa ma guardate in faccia il vostro interlocutore. Così se sei grande e vuoi vedere il mondo con gli occhi del tuo piccolo allievo ti devi inginocchiare per assumere il suo punto di osservazione. Così come fece Simone Weil che nel 1934 lasciò l’insegnamento per andare a lavorare come operaia alla Renault: questi 8 mesi di esperienza confluirono nell’opera “La condizione operaia”. Che incredibile esempio di cambio di paradigma, di empatia incarnata.

Questa è stata la Rivoluzione di Don Milani: “l’unica possibile, qui e ora, nel momento in cui io, tu, lei, noi, voi, loro decidiamo di assumere la responsabilità dello sguardo altrui”.

 

“Maestro si nasce o si diventa? Direi tutt’e due. All’università, quando studiavo lettere, non pensavo che avrei fatto l’insegnante, ma la prima volta che entrai in un’aula scolastica, avrò avuto vent’anni, non ero ancora laureato, si trattava di una supplenza, capii d’istinto, guardando i ragazzi, che quello sarebbe stato il mio mestiere. Sentivo uno spazio magnetico fra me e loro: lo stesso che percepisco ancora adesso, più di trent’anni dopo. Era qualcosa di profondo, legato alla mia solitudine di adolescente, che riconoscevo, di volta in volta, nell’insofferenza, nella rabbia, nella malinconia degli studenti. Come se rivedessi me stesso in loro. C’erano ferite da risanare. Persone da rimettere in piedi. Lacrime da asciugare. Se fossi riuscito a fare questo, pensai, avrei affermato un principio di umanità sul quale altri avrebbero potuto costruire.”
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