Gentilezza, Generosità, Gratitudine e altri taboo aziendali

Gentilezza, Generosità, Gratitudine e altri taboo aziendali

Sono recentemente stato a Pomaia, presso l’Istituto di Studi Tibetani Lama Tsong Khapa, per un breve ritiro di meditazione. L’esperienza, guidata da Paolo Testa (insegnante e praticante di lungo corso oltre che psicoterapeuta esperto), ruotava intorno a quelle che vengono chiamate pratiche di Gentilezza Amorevole, o Loving Kindness, derivazioni del termine Metta in lingua Pali.

Si tratta di una specifica tipologia di meditazioni volte a far sorgere nel soggetto una condizione ben precisa che integra aspetti percettivi (sensazioni fisiche), emotivi (stati d’animo) e mentali (pensieri). Potrei descriverla come una sorta di stato di profonda benevolenza, di cura affettuosa, di sincero apprezzamento rivolto innanzitutto verso sé stessi e poi verso il prossimo, partendo dalle persone care per arrivare fino a coloro verso i quali si prova una qualche forma di ostilità. Metta, nella spiritualità buddhista, è uno dei quattro Brahma-Vihara (letteralmente Dimore Divine), quelle “qualità speciali” proprie dell’essere umano che, se coltivate e nutrite nel tempo, contribuiscono ad illuminarne l’esistenza. Oltre alla Gentilezza Amorevole ci sono la Compassione (Karuna), la Gioia Simpatetica (Mudita) e l’Equanimità (Upekkha): ognuna di esse sostiene le altre e in qualche modo le include, come se fossero sfumature di un unico colore. Tuttavia Metta è quella che in occidente ha riscosso il maggior successo, se così si può dire: è facile trovare libri, eventi, seminari o veri e propri ritiri dal taglio più o meno laico dedicati a questo tema; come se la Gentilezza Amorevole avesse dato risposta ai bisogni generati dalla spigolosa e anaffettiva quotidianità in cui spesso ci sembra di vivere. Ed in effetti, per una società composta da individui spesso succubi dei sensi di colpa, intrisi di competizione, assuefatti al giudizio, vittime del “dover essere/apparire” e arresi all’homo homini lupus, parole come amorevolezza, perdono, vulnerabilità, cura, assumono un potenziale terapeutico non indifferente.  

Non ho quindi trovato così strano scoprire che altre quaranta persone (di più non ne conteneva lo spazio che avevamo a disposizione), uomini e donne di ogni età, erano disposte a dedicare quattro giorni consecutivi della loro vita alla sperimentazione di questa inusuale qualità, quest’attitudine accogliente, questa specie di balsamo invisibile di cui ciascuno sembrerebbe disporre naturalmente.

E allora, dopo esserci accomodati in una grande stanza ventilata e aver condiviso alcune regole comuni, abbiamo cominciato con delle semplici pratiche di mindfulness orientate alla stabilizzazione dell’attenzione (focus su respiro e sensazioni corporee) e di qi-gong per ammorbidire il corpo. Dopodiché, alternando sessioni sedute e camminate da 20-30-45 minuti ciascuna, siamo stati invitati ad evocare e ripetere nella nostra mente alcune semplici frasi, osservandone e assaporandone l’effetto:   

  • Possa io essere al sicuro, libero/a dal pericolo
  • Possa io essere in pace, libero/a dalle afflizioni mentali
  • Possa io essere in salute, libero/a dalla sofferenza fisica
  • Possa io prendermi cura di me stesso/a
  • Possa io amarmi e accettarmi così come sono
  • Possa il mio cuore essere in pace, la mente chiara e il corpo morbido’ 

Ciascuno aveva la massima libertà di modificarle, trovando le formule e i suoni che sentiva più vicini, soffermandosi volendo anche solo su alcune di esse o addirittura su singole parole. Dopodiché, ci è stato chiesto di provare a rivolgere i medesimi auspici ad un'altra persona: nello specifico ad un benefattore, qualcuno verso cui nutrivamo sinceri sentimenti di affetto, riconoscenza e gratitudine (un professore, un allenatore, un nonno…). Era sufficiente ricordarne l’immagine e/o gli episodi più emotivamente intensi, ancorandoli alle frasi ripetute. Poi abbiamo fatto la stessa cosa con una o più persone care (famigliari, amici, partner…), poi ancora con qualcuno che conoscevamo poco (un collega, il barista, il vicino di casa…) e infine con colui/colei/coloro che consideravamo nemici o comunque ostili. Tutto questo nel massimo rispetto dei tempi personali, senza alcuna costrizione o ansia da prestazione, con morbidezza e curiosità. Nient’altro che questo per circa 4 giorni. Ecco per sommi capi quello che ho sperimentato, scandito per fasi:

  1. Inizialmente ho incontrato rumore, confusione interna, rigidità corporea. Pensieri sparsi, più o meno ancorati ad impegni o preoccupazioni. Giudizi, dubbi circa la possibilità che potesse davvero succedere qualcosa in così poco tempo e addirittura perplessità sul senso dell’esperienza in generale, nonostante una discreta familiarità con quei contesti e concetti.
  2. Progressivo ammorbidimento di corpo e mente correlato ad una sorta di rinuncia a voler raggiungere un qualche traguardo. Alternanza fra sensazioni di grande stanchezza, percepita soprattutto nelle spalle, e di vitalità diffusa.
  3. Percezione crescente di una sorta di energia calda nella zona del petto, irradiante nel corpo, e maggior facilità nell’indirizzarla verso le persone evocate in meditazione. Persistenza di tale condizione di “apertura e connessione” anche oltre le sessioni formali di pratica.
  4. Consolidamento di un umore positivo, accogliente; maggior velocità nel riconoscere il sorgere di pensieri e tensioni muscolari che turbavano tale stato.   

Mano a mano che procedevo nell’esperienza, mi sono ritrovato a fare alcune riflessioni più generali, che provo a riassumere:

  • Metta non è una suggestione buddhista radical chic; è un’effettiva risorsa del sistema corpo-mente, potenzialmente accessibile anche (e forse soprattutto) in assenza di condizioni esterne favorevoli.
  • Coltivare gentilezza amorevole non significa affatto “piangersi addosso”, “mettersi a zerbino” o “sopportare in silenzio”; vuol dire piuttosto prendersi realmente cura di sé e delle fragilità che normalmente soffochiamo con giudizi e/o auto-svalutazioni.
  • Non è possibile dare reale ascolto, empatia e accoglienza all’altro se ci si rifiuta di dare tutto ciò a sé stessi

Dopodiché il mio pensiero è andato ai contesti organizzativi, dove quanto scritto finora risulterebbe nella migliore delle ipotesi fuori luogo, ma più probabilmente imbarazzante o ridicolo. Altro che “Possa io essere in pace”! In azienda le litanie silenziose che risuonano nei corridoi hanno ben altro tenore:

  • Qui se non stai attento ti fanno le scarpe
  • Non c’è tempo per essere gentili, ho degli obiettivi da raggiungere
  • Se ti mostri disponibile si approfitteranno tutti di te
  • Devo essere il/la migliore e dimostrare quello che valgo’ 
  • Sono circondato/a da un branco di incapaci/fannulloni/squali

E così spesso e volentieri capita che la gentilezza degeneri in manipolazione, lusinga o perbenismo, la disponibilità diventi sinonimo di debolezza e la gratitudine si mostri solo se strumentale ad un tornaconto personale. Il risultato? La significativa compromissione dell’ambiente relazionale in cui ci si trova a passare una gran quantità del proprio tempo-vita! Ma quel che è peggio è che tale condizione viene accettata come necessaria, ineluttabile, e ogni alternativa considerata alla fin fine balzana o utopistica. Ciascuno si trova inconsapevolmente ad assumere tali atteggiamenti per difendersi da un ambiente percepito come perlopiù ostile, continuando a sguazzare fra sensi di colpa o inadeguatezza, ambizioni ossessive, invidie e lamentele. Il problema è che queste abitudini logorano il sistema corpo-mente, che si ritrova a funzionare in condizioni di rigidità (potremmo dire stress) semi-permanente.

Metta è l’antidoto ai veleni che così facilmente s’impadroniscono di noi, un invito a connetterci con la vitalità luminosa che pulsa oltre la nebbia grigia dentro alla quale ci sembra di essere imprigionati. Il che significa fare i conti con quella nebbia, attraversarla invece che tentare di sfuggirle affannosamente o distruggerla con rabbia. Questo è l’ostacolo più insidioso: la paura/rifiuto di stare, di contattare la nostra sofferenza, travestita di volta in volta da collega scontroso, da cliente insoddisfatto, da capo esigente, da collaboratore demotivato etc. E non si tratta affatto di diventare tutti “bravi, obbedienti e servizievoli” né di rifugiarsi in un qualche paradiso posticcio new-age. La Gentilezza Amorevole è, piuttosto, una forma di sano egoismo, un prendersi cura di sé che dona energia di buona qualità che ci fa sentire bene e con cui possiamo nutrire gli ecosistemi relazionali in cui siamo immersi.

A mio parere, le organizzazioni professionali non possono davvero più permettersi di sottovalutare questa dimensione, benché meno visibile. La crescita e lo sviluppo di un’azienda non possono essere perseguiti a costo del ben-essere di chi ci si dedica, come se fosse una sorta di terribile legge divina impressa a fuoco nell’inconscio collettivo. Perché gli impatti di questa convinzione sono devastanti: se il mio ben-essere è sacrificabile, a maggior ragione lo è quello gli altri e lo è di conseguenza anche quello dell’ambiente. In una sorta di folle gioco al massacro con i cui effetti stiamo facendo drammaticamente i conti.

Detto ciò, il punto di partenza di quest’arte rivoluzionaria della gioia (per citare il titolo di un famoso libro di Sharon Salzberg) non può che essere personale, tanto nella vita privata quanto sul lavoro.

Per parafrasare Jiddu Krishnamurti, uno dei più importanti filosofi del ‘900, il modo migliore per pacificare i conflitti e le guerre in cui siamo implicati e che incendiano il mondo è prenderci amorevole cura di quelle che albergano e alimentiamo nel nostro cuore. Ricordandoci che, in quanto esseri umani, disponiamo di un bacino di risorse innate e di una saggezza organismica che hanno solo bisogno di un pò di quiete, pazienza e fiducia per potersi manifestare.

PS: Per chi volesse fare un piccolo esperimento personale, ecco qui di seguito il link ad una pratica di Gentilezza Amorevole, guidata da Nicoletta Cinotti, psicoterapeuta e analista bioenergetica.

PICCOLA BIBLIOGRAFIA DI APPROFONDIMENTO...

  • Kornfield, J. “Il cuore saggio”, Corbaccio
  • Phillips, A. e Taylor, B. “Elogio della gentilezza”, Ponte alle Grazie
  • Salzberg S. “L’arte rivoluzionaria della gioia”, Ubaldini
  • Saunders, G. “L’egoismo è inutile”, Minimum Fax
Antonio D'Este

Facilito il cambiamento individuale e organizzativo | Systemic & Holistic Counselor | Soft & Life Skills Trainer | Orientatore Asnor | Personal Brandness Coach | Comunicazione Consapevole

7 anni

Grazie per la condivisione. Condivido pienamente questo punto di vista.

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