(Ri)partire dai fondamentali
È da ormai parecchi mesi che alcuni pensieri continuano a ricorrermi nella mente, stimolati da situazioni ed episodi che attraversano la mia vita quotidiana e nei quali finisco per riconoscere correlazioni più o meno esplicite. Tutto è iniziato con la guerra in Ucraina e l’ondata di violenza e distruzione che ha portato e ancora continua a generare. Mi lascia sbalordito l’incapacità che persone con responsabilità e poteri così ampi dimostrano non riuscendo a trovare strade alternative per risolvere conflitti che, con buona pace di tutte le complesse e certamente sensate spiegazioni e argomentazioni, ho la netta sensazione affondino le radici in emozioni basilari come la rabbia e la paura.
E così accade che l’orgoglio, la sete di vendetta e il desiderio di sopraffazione, mascherati da nazionalismo e necessità militare prendano il sopravvento e guidino piccole e grandi decisioni che portano alla morte di centinaia di migliaia di persone nei modi più orribili; e ognuno è ovviamente convinto di essere dalla parte della ragione, o perlomeno costretto dalle circostanze a fare quello sta facendo. Le attrezzature più sofisticate, le tecnologie più avanzate e le strategie più raffinate vengono impiegate per danneggiare o meglio ancora ammazzare il nemico, non diversamente da quello che facevano i nostri antenati nelle caverne. Anche nella civilissima Europa e nell’evolutissimo occidente.
Contemporaneamente la classe politica del nostro Paese, approfittando della recente campagna elettorale, ha dato l’ennesimo sfoggio del suo ‘stato di salute’. Al di là del linguaggio utilizzato, intriso di giudizi e di insulti e costellato da ritrattazioni e giustificazioni completamente prive di alcun pudore, ci troviamo di fronte ad un sistematico utilizzo puramente utilitaristico delle relazioni. Anche all’interno degli stessi schieramenti, le cosiddette alleanze si reggono sul vantaggio personale che le parti in causa ritengono di poter ottenere. Nella quasi totale assenza di fiducia o anche solo di stima reciproca, si prediligono ben poco onorevoli sotterfugi, complotti, soffiate e doppi giochi. Tanto è vero che alla prima occasione, non appena si intravedono opportunità più remunerative, gli accordi saltano e gli alleati si trasformano in rivali. Ma “questa è la politica, baby” finiamo per dire a noi stessi, ormai assuefatti a un modello comportamentale che diventa giocoforza esempio e pietra di paragone, anche perché amplificato e ribadito ossessivamente dai media.
E a proposito di media, un’altra cosa che mi colpisce sono le sempre più numerose notizie che raccontano episodi di violenza (compresa quella auto inflitta) agiti da ragazzi e ragazze, spesso in gruppo. Aggressioni, stupri, risse, azioni di bullismo sono drasticamente aumentate negli ultimi due anni, con ogni probabilità come effetto collaterale delle restrizioni pandemiche.
Ma al di là delle possibili o probabili cause, ciò che trovo inquietante è la diffusa facilità con la quale gli adolescenti scivolano verso quel tipo di risposte quando si trovano a vivere una condizione di disagio psico-emotivo, perché denota l’assenza di soluzioni alternative meno distruttive a disposizione. Di certo non perché manchino in senso assoluto, ma perché non gli sono state mostrate né a casa né a scuola (in primis con l’esempio) e non sono quindi stati abituati a sperimentarle. Ancora una volta emerge la profonda immaturità che, pur in un paese riconosciuto come uno dei più avanzati dal punto di vista civile e industriale, è dilagante quando i parametri di riferimento diventano, ad esempio, l’intelligenza emotiva e sociale.
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Infine rifletto sulle problematiche con le quali mi confronto giornalmente in veste di formatore, consulente, coach e counselor che si muove all’interno di contesti organizzativi e interagisce con profili professionali estremamente variegati. Le criticità che ricorrono con maggior frequenza, le situazioni che generano più sofferenza e difficoltà non solo sul piano lavorativo ma anche su quello personale e hanno ripercussioni tanto operative quanto relazionali sono sostanzialmente riconducibili a pochi fattori chiave: bassa propensione al lavoro in gruppo, scarsa abitudine alla negoziazione generativa, mancanza di lucidità nelle dinamiche conflittuali, incapacità di dare e chiedere feedback empatici. E, anche in questo caso, non perché ci sia carenza di risorse cognitive ed emotive, ma perché manca l’allenamento, non sono state coltivate a sufficienza e quindi non solo restano inibite, ma quando ci si inizia a lavorare le resistenze e le obiezioni si sprecano (il feedback è forse il tema che risulta più difficile da digerire nella mia esperienza).
Ora, per quanto mi renda conto che queste 4 questioni hanno ben poco a che fare l’una con l’altra, per tipologia di persone coinvolte, distanza geografica e contesto di riferimento, nondimeno vedo un filo rosso che le attraversa e che mi tormenta: come diavolo è possibile che abbiamo fatto passi da gigante in una gamma variegatissima dello scibile umano, raggiunto traguardi impensabili e ottenuto risultati sorprendenti eppure non riusciamo a consolidare, mettere a sistema e diffondere modalità di gestione delle emozioni e delle relazioni interpersonali che ci consentano di esprimere i nostri bisogni in modo comprensibile e non violento? Com’è possibile che a un medico vengano forniti tutti gli strumenti per aprire le arterie coronarie ostruite infilando un tubicino nel polso di un paziente senza nemmeno il bisogno di addormentarlo, ma continui ad essere mediamente sprovvisto delle competenze relazionali necessarie a costruire un rapporto di fiducia con quella persona (con le molteplici conseguenze problematiche che ciò comporta)? Com’è possibile che abbiamo sviluppato forme avanzatissime di intelligenza artificiale ma le utilizziamo in primis per costruire armi sempre più letali, non essendo capaci di risolvere i conflitti in altro modo? Com’è possibile che si investano ingenti risorse fisiche e strumentali affinché i bambini imparino a usare il computer e a ‘scrivere codici’ fin dalla scuola elementare ma venga completamente trascurata la loro educazione sentimentale, che li aiuterebbe a coltivare intelligenza emotiva e sociale e a diventare adulti davvero più maturi?
A costo di sembrare ingenuo, ma tutto questo non può essere considerato logico. Che senso ha perseguire strenuamente l’allungamento della vita umana se poi non sappiamo convivere gli uni con gli altri e continuiamo ad essere più che propensi ad attaccare e perfino ad ammazzare chiunque non sia d’accordo o in linea con le nostre opinioni e/o interessi? A che ci serve aumentare la velocità di connessione, la precisione degli strumenti, i volumi di vendita, la potenza di fuoco (più o meno figurata) se non impariamo a riconoscere i pregiudizi velenosi di cui siamo portatori, a dialogare costruttivamente con chi ha prospettive diverse dalla nostra, a prediligere la collaborazione alla competizione? La netta sensazione è che ci siamo davvero persi per strada i fondamentali, che continuiamo a inseguire (come individui e collettività) un progresso o più in generale un ‘successo’ pesantemente ottuso. Non solo perché i benefici materiali che ne derivano rischiano di essere elitari, alla portata di pochi, ma perché alla fin fine restituiscono comunque ben poca soddisfazione se non sono accompagnati da un miglioramento della qualità della relazione con noi stessi e con gli altri.
Quanto vorrei che, esattamente come è stato creato il CERN (Conseil européen pour la recherche nucléaire), l’UNIRSD (United Nations Research Institute For Social Development) e la FAO (Food & Agriculture Organization) venisse istituito il C.I.R.C.E., Centro Internazionale (o Interdisciplinare) di Ricerca per la Comunicazione Empatica. Finanziato con fondi pubblici e privati e il compito di sviluppare metodologie di gestione delle interazioni che consentano agli esseri umani di esprimere pensieri e sensazioni in modo comprensibile e reciprocamente rispettoso, così da coltivare relazioni cooperative e nutrienti. Partendo da approcci e ‘strumenti’ già esistenti come ad esempio il Feedback, la Comunicazione NonViolenta, il Metodo Gordon, l’Insight Dialogue e sondando soluzioni ibride o trovandone di nuove con la massima libertà di sperimentazione. Facendo collaborare linguisti, psicologi, antropologi, sociologi, neuro-scienziati… per poi diffondere a macchia d’olio i progressivi risultati del loro lavoro in tutti i tipi di contesti: educativi, organizzativi, istituzionali, sanitari… Questo sì che sarebbe un modo per contribuire davvero al progresso di cui abbiamo un bisogno disperato, con riverberi esponenziali. Possibile che sia solo un’utopistica fantasia magari anche un po' ridicola?
Mentre rileggo con un sorriso sghembo queste ultime frasi rifletto sul fatto che forse, molto più semplicemente, ognuno di noi vivrebbe un pochino meglio se anche solo si rendesse davvero conto che quel senso di pienezza e pacificazione di cui tanto strenuamente andiamo alla ricerca passa molto più dall’incontro con l’Altro che dalla sua manipolazione o sopraffazione volta a ottenere chissà quale vantaggio.