La meravigliosa eredità di Cormak McKarty
Stella Maris – Cormac McCarthy - Einaudi
È l’ultimo romanzo che ci lascia McCarthy (morto all’età di 89 anni, nel 2023).
Come testamento, Stella Maris, la sua opera più filosofica, il romanzo più sofisticato, la storia più triste e divertente al contempo, tra tutti i suoi scritti.
La trama è al limite del banale e scriverla in due righe certo non può guastare la futura lettura (ma guarda che si può evitare di usare “spoiler”): 1972. Alicia, una ragazzina di vent’anni, prodigio della matematica e presunta schizofrenica con intenti suicidi si presenta a “Stella Maris”, una clinica psichiatrica, a causa di allucinazioni tanto reali quanto inquietanti. Tutto il resto è un dialogo tra lei e uno psichiatra. Dialogo scarnificato di tutto: di descrizioni, di spiegazioni, quasi un testo teatrale ma privato anche della scenografia e delle virgolette nei dialoghi. L’autore semplicemente sparisce. È come ascoltare una registrazione. A te resta solo di metterci le voci.
Va bene, in realtà ci sono un paio di colpi di scena, che però chi ha letto il libro precedente, “Il Passeggero” (un’altra meraviglia) che fa parte di questo dittico, già conosce, e comunque nulla c’entrano con la grandezza di questa opera.
Che McCarthy sia stato il re indiscusso del dialogo – almeno per me – è cosa scontata, ma qui, vi assicuro, raggiunge vette che fanno venire una vertigine letteraria.
Come per Sunset Limited (da leggere assolutamente), diventerà un’opera teatrale: è indiscutibile. Bravo il primo produttore illuminato che lo capirà e tanta invidia per i due fortunati attori, soprattutto per il ruolo di Alicia.
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Ora provate a immaginarvi questa ragazzina con un QI non testabile, che a quattordici anni viene iscritta all’università, facoltà di matematica, conclusa poi in due anni, che si è già confrontata o che ha lavorato con i più grandi fisici e matematici nell’epoca della meccanica quantistica e dell’energia atomica, con la passione per la filosofia, che arriva a leggere cinque libri al giorno o testi scientifici per anni, passando da Oppenheimer a Wittgenstein, da Bohr a Platone,fermandosi solo per mangiare o dormire poche ore. Una virtuosa del violino che spende un patrimonio ricevuto in eredità per acquistare all’asta un famoso violino e che scoppia in lacrime solo appoggiandoselo in grembo perché la musica le pare, forse, è l’unica ancora di salvezza in un’esistenza senza senso. Immaginate ora il povero psicologo, per quanto colto, intelligente, intuitivo (cosa che effettivamente è) che tenta di capire cosa si cela dentro a quella testa.
L’empatia sarà l’unica arma che il dottore si accorgerà di avere a disposizione, e che Alicia apprezzerà “concedendogli” questo dialogo. Perché lei non è altezzosa, tutt’altro, solo sa che nessuno può capirla… tranne forse questo umile medico che arriva a scusarsi più volte quando Alicia esplode in un “Cristo!” o in un “Davvero?” quando la domanda assume aspetti ordinari di banalità - per lei -imbarazzante.
In più di un’occasione sembra che i ruoli si confondano senza che loro stessi se ne accorgano e in quelle paradossali occasioni lo psichiatra si nutre avidamente di riflessioni e di intuizioni che nessun testo medico o di psichiatria avrebbe potuto, al tempo, contenere.
Questo dialogo diventa così una danza, un passo a due, come tra Ginger Rogers e uno zoppo. E lei lo lascia danzare, si lascia dirigere, perché capisce che lui il talento ce lo avrebbe pure se non fosse per la zoppia con cui sembra siano nati tutti quelli che conosce, esclamando solo qualche “Cristo” o “Davvero?” quando le viene pestato un piede. Lo lascia fare, perché sa che quella danza, pur non allontanandola davvero dal suicidio, porta dentro di sé, in quel gesto, una certa forma di amore che le è sempre mancata nella sua breve vita.