Una pronuncia condivisibile della Cassazione: ovvero, a favore del cumulo di separazione e divorzio nel procedimento a domanda congiunta

Una pronuncia condivisibile della Cassazione: ovvero, a favore del cumulo di separazione e divorzio nel procedimento a domanda congiunta

Michele Angelo Lupoi

(pubblico nella newsletter il mio contributo al confronto con l'amico Claudio Cecchella sul cumulo consensuale di separazione e divorzio pubblicato oggi su Quotidiano giuridico. Vi invito a leggere anche il pezzo di Claudio, più critico sulla pronuncia della Cassazione)

Quotidiano Giuridico

Negoziare la definizione dei rapporti tra due coniugi in crisi richiede una visione d’insieme proiettata nel futuro: le decisioni odierne avranno un impatto significativo nello sviluppo del tempo e, dunque, una complessa serie di ipotesi e di varianti deve essere previamente considerata.

D’altra parte, come ben noto, gli accordi presi rispetto alle questioni direttamente derivanti dalla crisi familiare (responsabilità genitoriale, mantenimento della prole ed eventualmente dell’(ex) coniuge) sono sempre sottoposti alla regola “rebus sic stantibus” e, dunque, hanno una tenuta “debole” rispetto al modificarsi della situazione di fatto e di diritto di riferimento.

Nel corso delle trattative, anzi, è necessario prendere in considerazione (e ove possibile disciplinare in via preventiva) le nuove situazioni che realisticamente si produrranno nel futuro (anche non troppo immediato), se non altro per specificare se, negli accordi, di tali vicende si sia o meno già tenuto conto.

Quello che più mi interessa evidenziare qui è che, in ultima analisi, allo stato, nessun accordo di separazione può ritenersi definitivo e immutabile. A distanza di sei mesi, infatti, i coniugi potranno trovarsi a ridiscutere l’assetto dei loro rapporti rispetto alla prole minorenne e al mantenimento per cercare di raggiungere un ulteriore accordo per il divorzio. E non sono rari i casi in cui, dopo una separazione consensuale, il divorzio si svolge in forma contenziosa per l’incapacità o la indisponibilità dei coniugi di trovare un accordo anche in tale sede.

Sino alla recente riforma processuale ad opera del d. lgsl. n. 149 del 2022 (c.d. riforma Cartabia), in particolare, la giurisprudenza, come noto, negava validità agli accordi con cui i coniugi, in sede di separazione, prendessero accordi in vista del futuro divorzio, ad esempio con la previsione di pagamenti una tantum a liquidazione del (futuro) assegno divorzile oppure sotto forma di rinuncia (reciproca o unilaterale) a tale assegno divorzile. Si affermava, in particolare, che i coniugi non potessero disporre in via preventiva di un diritto non ancora sorto (dal momento che, come noto, il diritto all’assegno divorzile matura solo con il passaggio in giudicato della sentenza che scioglie il vincolo matrimoniale o ne dichiara cessati gli effetti civili). Ciò costituiva un importante freno alla disponibilità del coniuge economicamente più forte a fare “concessioni” all’altro in sede di separazione e in vista del divorzio, portando a volte a situazioni di stallo difficilmente superabili.

Molti accordi di separazione, d’altro canto, sono sottoscritti, da almeno una delle parti, con il retropensiero di rimettere tutto in discussione in sede di divorzio, ciò che induce a essere sempre prudenti rispetto alla “resistenza” degli accordi presi in sede separativa (e, in ultima analisi, può ostacolare le relative negoziazioni tra le parti).

In un contesto di questo tipo, la “pianificazione” della crisi coniugale presentava notevoli problematiche e poteva indurre a scegliere la via giudiziale a quella consensuale.

La situazione potrebbe essere cambiata dopo la c.d. riforma Cartabia.

Come sovente avviene (vedi, ad esempio, rispetto al riparto di competenza tra giudice ordinario e giudice minorile dopo l’introduzione della legge n. 54 del 2006), ci sono innovazioni “implicite” (se non proprio “a sorpresa”), che non emergono dalla lettera della norma ma sono conseguenza più o meno diretta di un nuovo contesto introdotto dal legislatore.

In particolare, come noto, il decreto n. 149 del 2022 ha disciplinato un procedimento unitario di famiglia (anche se con molteplici “varianti”), nel cui ambito sono previste disposizioni speciali in materia di procedimenti della crisi familiare (separazione, divorzio, scioglimento dell’unione civile, regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale). In particolare, l’art. 473bis.49 c. p. c. ha introdotto la possibilità di cumulare, in unica sede processuale, la domanda giudiziale di separazione e quella di divorzio giudiziale.

Questa novità è stata generalmente accolta con favore dagli interpreti, in quanto mira a concentrare e ridurre l’attività processuale e a definire in unico contesto la complessiva controversia coniugale.

La norma peraltro ha complessità procedurali di un certo rilievo e richiede ai difensori delle parti un’intensa attività professionale in un arco di tempo piuttosto limitato. Il giudice, dal canto suo, potrebbe trovarsi a pronunciare almeno due sentenze non definitive e una sentenza definitiva (divisa peraltro in capi separati per le decisioni relative, rispettivamente, alla separazione e al divorzio).

Per quanto ci interessa qui, si deve considerare una situazione che invero si può presentare il quel contesto: ovvero l’ipotesi che le parti trovino, in corso di giudizio, un accordo che consenta loro arrivare ad una sentenza pronunciata su conclusioni congiunte. Se tale accordo sopraggiunge quando è già diventata procedibile la domanda di divorzio, non si pongono problemi: le parti chiederanno al tribunale di pronunciare una sentenza definitiva che recepisca i patti tra loro concordati (sempre se ritenuti dal collegio nell’interesse dell’eventuale prole minorenne).

Cosa succede, però, sul piano processuale (e, indirettamente, su quello sostanziale) se, nelle fasi iniziali del procedimento, le parti trovano un accordo “globale” per la definizione del contenzioso? Le alternative sono almeno tra: 1) escludere che le parti possano trovare un accordo in questo contesto (ma sarebbe una soluzione a dir poco assurda); 2) prevedere che le parti possano prendere un accordo solo sulla separazione dovendo rinunciare alla prosecuzione del procedimento sulla domanda di divorzio, di cui ancora non sono maturate le condizioni (ma sarebbe una soluzione poco pratica e antieconomica e che rischia di ostacolare il raggiungimento di un accordo in questo contesto); 3) ammettere, infine, che i coniugi possano prendere un accordo che si sviluppa in due fasi successive: con riferimento, la prima, alla separazione (con la pronuncia di una sentenza non definitiva) e, la seconda, al divorzio, condizionata al decorso del termine di legge per rendere “procedibile” la relativa domanda e con la pronuncia di una sentenza definitiva a chiusura del procedimento.

Quest’ultima appare la soluzione più efficiente e idonea a soddisfare gli interessi delle parti.

Sul piano processuale, d’altro canto, nulla sembra ostacolarne l’ammissibilità: dalla esplicita possibilità di cumulare le domande di separazione e divorzio nel procedimento giudiziale deriva la possibilità per le parti di raggiungere una conciliazione su entrambe tali domande. In effetti, la prima udienza ex art. 473bis.21 c. p. c. è appunto finalizzata al tentativo di conciliazione dei coniugi: e non avrebbe senso precludere lodo di conciliarsi in un’unica sede su tutte le questioni controverse.

Resta da vedere se ostacoli a tale soluzione possano essere rinvenuti sul piano sostanziale: sul punto, però si tornerà nel prosieguo.

Qui mi interessa evidenziare che già la norma che, espressamente, prevede il cumulo impone di considerare le implicazioni di un eventuale accordo in tale contesto: per concluderne che, una volta ammesso (come si è visto) tale accordo, sul piano logico nulla esclude l’ipotesi che sin dall’inizio le parti possano prendere accordi cumulati su separazione e divorzio. O meglio: per concluderne che le “difficoltà” sostanziali che si possono individuare rispetto al contesto contestuale sono le medesime che si possono prospettare nel contesto (inizialmente) giudiziario, con la conseguente necessità di dare soluzioni uniformi alle due ipotesi.

Bisogna, dunque, a questo punto, spostare l’attenzione sul tema che direttamente ci interessa qui, ovvero il cumulo di separazione e divorzio nell’ambito di un procedimento instaurato con ricorso congiunto, su accordo delle parti.

In particolare, nel contesto nella variante del rito unitario di famiglia dedicato alle controversie della crisi familiare, l’art. 473bis.51 c. p. c. prevede disposizioni ad hoc in materia di procedimenti di separazione e di divorzio proposti su domanda congiunta, sulla base di un accordo raggiunto tra le parti e sottoposto alla valutazione del giudice per la sua “efficacia”.

Non si tratta, ovviamente, di una novità assoluta sul piano sistematico: già in precedenza, infatti, l’art. 711 c. p. c. disciplinava la separazione consensuale e la legge n. 898 del 1970 conteneva una disposizione ad hoc sul divorzio “a domanda congiunta”.

Sul piano processuale, d’altro canto, la riforma, nell’alveo del procedimento unitario di famiglia, uniforma il trattamento di tutte le situazioni in cui il conflitto familiare è risolto con un accordo tra le parti: e, dunque, non solo la separazione o il divorzio, ma anche lo scioglimento delle unioni civili o la definizione della responsabilità sulla prole di genitori non coniugati. Rispetto al passato, in particolare, si prevede un unico modello processuale per separazione e divorzio, superando la precedente dicotomia alla stregua della quale gli accordi di separazione consensuali erano sottoposti a mera omologa da parte del Tribunale, con decreto reclamabile ai sensi delle norme sul procedimento in camera di consiglio, mentre sugli accordi per un divorzio a domanda congiunta si pronunciava il Tribunale con sentenza. Proprio da tale precedente dicotomia derivano alcuni dei problemi interpretativi nello specifico contesto cui sono dedicate queste pagine.

Nel nuovo regime, per contro, come si è detto, la disciplina processuale è stata uniformata: il procedimento, dunque, si attiva con il deposito di un divorzio congiunto, passa per lo svolgimento di un’udienza (che a certe condizioni può essere sostituita dal deposito di note scritte) e porta comunque alla pronuncia di una sentenza.

Nell’art. 473bis.51 c. p. c., d’altro canto, non si prevede espressamente la possibilità per le parti di depositare un ricorso che contenga accordi congiunti rispettivamente per la separazione e per il divorzio. Questo fa ritenere a molti autorevoli esperti che, in sede “consensuale”, non sia possibile il cumulo previsto dall’art. 473bis.49 c. p. c. per i procedimenti contenziosi.

Rispetto al dato “formale”, per contro, alcuni osservano che l’art. 473bis.51 c. p. c. esordisce facendo riferimento alla “domanda congiunta relativa ai procedimenti di cui all'articolo 473-bis.47”, ovvero i procedimenti della crisi familiare per i quali, all’art. 473bis.49 si prevede la possibilità del cumulo tra separazione e divorzio. L’uso dell’espressione “procedimenti” al plurale supporterebbe, dunque, la possibilità di cumulare in un’unica domanda sia la separazione che il divorzio.

Questa interpretazione non è forse insuperabile, ma la sua ratio appare condivisibile. In effetti, risponde senz’altro a un criterio logico prevedere l’estensione anche ai procedimenti consensuali dei meccanismi previsti per i procedimenti contenziosi in quanto compatibili, soprattutto in considerazione del fatto che, come si è detto, la riforma Cartabia ha portato tutti i procedimenti della crisi familiare sotto il medesimo “ombrello” del processo unitario, per quanto con varianti.

In effetti, come si è anticipato, il cumulo giudiziale, sul piano procedimentale, non pone meno problemi interpetrativi / applicativi di un cumulo “consensuale”. Anzi, in un contesto consensuale non sorgono i dubbi in merito all’effettività del diritto di difesa che si possono prospettare rispetto al cumulo giudiziale (soprattutto nel caso in cui tale cumulo si crei in corso di causa, a seguito della proposizione di domanda riconvenzionale di divorzio da parte del convenuto).

Sul piano funzionale, anzi, la possibilità di prendere accordi su separazione e divorzio nell’ambito di un’unica negoziazione si fa particolarmente apprezzare nell’ottica di rendere possibile una più efficace “pianificazione” della crisi coniugale, traghettando i coniugi dall’esplodere della crisi fino alla cessazione del vincolo matrimoniale in modo armonico e, soprattutto, concordato.

In particolare, il cumulo consensuale consente di concordare la liquidazione una tantum del (futuro) assegno divorzile nell’immediatezza della crisi coniugale.

Ciò, d’altra parte, non sembra costituire una violazione dell’art. 160 c. c., dal momento che la relativa clausola non farebbe parte dell’accordo di separazione né sarebbe immediatamente operativa: essa, infatti, resterebbe condizionata (e “improcedibile” sino) al maturare dei termini per la pronuncia del divorzio e comunque sottoposta alla valutazione di equità da parte del Tribunale.

Sul piano sostanziale, si può accennare ad almeno due questioni che meritano approfondimento nel nostro contesto.

Appare, in primo luogo, necessario mettere in discussione e riconsiderare la tesi per cui i coniugi non potrebbero disporre di un diritto di cui non si sia ancora verificato il presupposto costitutivo (nel nostro caso, la pronuncia di divorzio). Sono, in effetti, senz’altro ammissibili accordi o atti dispositivi condizionati al verificarsi di eventi futuri e incerti (v. ad esempio quanto previsto per la successione del nascituro dall’art. 462 c. c.): e, nell’ambito che ci riguarda, in effetti, l’atto di disposizione resta comunque condizionato alla procedibilità della domanda, appunto, di divorzio ( ).

A monte di quanto precede (e in modo più radicale), si può fondatamente mettere in discussione che, dalle disposizioni dell’art. 160 c. c., derivi anche la (preventiva) indisponibilità del diritto all’assegno di divorzio.

In effetti, non sussistono dubbi circa il fatto che le parti possano oggi “negoziare” in merito al riconoscimento o al riconoscimento dell’assegno divorzile, senza alcun controllo esterno da parte del giudice. In materia di negoziazione assistita, in particolare, il P. M. può “controllare” solo che gli accordi sottoposti alla sua attenzione siano rispondenti agli interessi della prole (e non anche dei coniugi) senza voce in capitolo rispetto ai rapporti patrimoniali tra i coniugi.

D’altra parte, non mi sembra che qualcuno dubiti della “disponibilità” della domanda per il riconoscimento del diritto all’assegno divorzile nel contesto del procedimento “unico” di separazione e divorzio, in particolare rispetto alla preclusione che colpisce tale domanda se non proposta nel ricorso introduttivo o nella comparsa di risposta (depositata tempestivamente). Il che implica che, in caso di “cumulo” giudiziale, la parte decade dalla possibilità di proporre la domanda di (futuro) assegno divorzile se non la formula sin dall’inizio del procedimento (di separazione), quando i relativi presupposti non sono ancora maturati.

Come si sarà capito, a differenza dall’amico Claudio Cecchella, sono favorevole al cumulo di separazione e divorzio in sede consensuale e ho pertanto accolto con favore la recente decisione della Cassazione n. 28727 del 16 ottobre 2023, adita in via pregiudiziale ex art. 363bis c. p. c. dal Tribunale di Treviso (per maggiori dettagli al riguardo, rinvio per brevità, al commento di Claudio Cecchella su queste pagine virtuali).

Sul piano teorico, non vedo particolari difficoltà. Anche rispetto alla previgente disciplina, mi ero espresso nel senso di escludere che il procedimento di separazione consensuale rientrasse nella c.d. volontaria giurisdizione: anche nell’ambito di tale procedimento, infatti, venivano omologati accordi relativi a diritti soggettivi, creando un nuovo status personale. Certo, quel procedimento era sottoposto a regole formali semplificate e si concludeva con un decreto reclamabile ai sensi dell’art. 739 c. p. c. D’altro canto, anche il decreto di omologa, emesso con le forme del rito camerale, produceva la cosa giudicata sostanziale, almeno con riferimento alla separazione, che poteva venire meno (come in effetti tuttora) solo per riconciliazione, se del caso accertata all’esito di apposito procedimento giudiziale, non certo per revoca del precedente decreto.

La scelta del rito, d’altro canto, rientra nella discrezionalità del legislatore e, rispetto al nuovo contesto, bisogna prendere atto del fatto che il legislatore ha optato per un (generale) ripudio del rito camerale, valorizzando la funzione giurisdizionale del procedimento di famiglia che si conclude con sentenza anche nelle separazioni consensuali. Soprattutto, come è stato evidenziato ( ), bisogna prendere atto che la riforma Cartabia considera i procedimenti “consensuali” per la soluzione delle crisi familiari come un modello speciale rispetto a quello previsto per gli analoghi procedimenti giudiziali, di cui condividono la struttura di base, modulata con il deposito di un ricorso, lo svolgimento di un’udienza, la pronuncia di una sentenza. Non a caso, nel nuovo contesto, come si è visto, si può affermare che l’incipit dell’art. 473bis.51 c. p. c. (“La domanda congiunta relativa ai procedimenti di cui all'articolo 473-bis.47”) sia idoneo a estendere al procedimento a domanda congiunti i meccanismi processuali previsti per il procedimento contenzioso, in quanto compatibili ( ).

Nel nuovo contesto processuale, dunque, non sorgono problemi teorici rispetto alla possibilità per il Tribunale di emettere una sentenza non definitiva di separazione con contestuale ordinanza di rimessione della causa in istruttoria, fissando l’udienza successiva dopo il decorso del termine di legge per il divorzio (bisognerà piuttosto aggiornare i sistemi informatici del Ministero ma quello è un problema diverso).

Sono comunque consapevole delle difficoltà applicative che scaturiscono dalla pronuncia della Cassazione e rispetto alle quali si è espresso con grande acutezza Romolo Donzelli.

Va evidenziato, infatti, che la suprema Corte, nella sua recente decisione, glissa su un punto invero cruciale: ovvero l’eventualità che una delle parti voglia revocare il proprio consenso all’accordo di divorzio dopo il deposito del ricorso cumulato e, in particolare, dopo la pronuncia della sentenza non definitiva di separazione.

Si tratta, a ben vedere dello sviluppo di un tema già noto in precedenza, ossia la possibilità per il coniuge di “cambiare idea” dopo aver inizialmente concordato con l’altro la regolamentazione dei rapporti conseguenti alla crisi coniugale.

A me pare che, al riguardo, si debba dare la stessa risposta che la Cassazione dava in passato: ovvero ritenere che il consenso espresso agli accordi di divorzio sia irrevocabile ( ). Le parti in altre parole, nel negoziare un accordo cumulato, dovranno essere consapevoli che quell’accordo le vincolerà (anche se il Tribunale si pronuncerà inizialmente solo su una parte dello stesso), senza potere avere quei “retropensieri” cui accennavo all’inizio di queste pagine.

Quanto precede, d’altro canto, non risolve tutti i problemi.

In particolare, resta aperto il tema delle “sopravvenienze”, ovvero delle circostanze sopravvenute al deposito del ricorso cumulato che dovessero alterare in un modo o nell’altro gli equilibri raggiunti tra i coniugi nel loro accordo.

Anche in questo caso, si tratta di un problema non nuovo ma che nel contesto di riferimento appare più grave, considerato il maggior spazio temporale che decorre tra il deposito di un ricorso cumulato e la decisione da parte del Tribunale sulla domanda “condizionata” di divorzio (con annessi e connessi).

Ovviamente, le nuove circostanze possono e debbono essere fatte valere avanti al giudice adito, per evidenti considerazioni di giustizia: d’altro canto, se così non fosse, i coniugi si troverebbero vincolati da una sentenza che non potrebbero in seguito modificare, dal momento che le nuove circostanze in questione sono venute in essere prima della relativa pronuncia.

Il problema non è tanto concordare sul passaggio che precede: non credo, in effetti, che nessuno (Cassazione in testa) metta la cosa in discussione. Piuttosto, si deve capire cosa succede, sul piano processuale, qualora, nel corso del procedimento cumulato, una delle parti dichiari che sono sopraggiunte nuove circostanze che, a suo dire, modificano le situazioni personali o patrimoniali dell’uno o dell’altro coniuge (o anche di entrambi).

Al riguardo, ci sono più dubbi che certezze.

Escluderei, in primo luogo, che il Tribunale si debba limitare a prendere atto dell’allegazione delle asserite sopravvenienze per dichiarare il non luogo a provvedere sulla domanda (cumulata) di divorzio: questa soluzione, in effetti, vanificherebbe il principio della irrevocabilità del consenso.

Si può, per contro, ipotizzare che, a fronte di tale allegazione, il Tribunale debba disporre un “mutamento” di rito, chiedendo alle parti di adeguare i rispettivi atti difensivi alle previsioni degli art. 473bis.12 c. p. c. e seguenti. Anche così, in sostanza, si consentirebbe alla parte di revocare il proprio consenso, con il vantaggio, però, per l’altra parte, di preservare gli effetti della domanda iniziale e di conseguire comunque una economia processuale. Un tale mutamento di rito, in effetti, non è disciplinato dalle norme ma è agevolmente attuabile per via interpretativa. D’altro canto, anche nel regime precedente si riteneva che, qualora il collegio ritenesse che gli accordi tra i coniugi non rispondessero agli interessi della prole, il ricorso congiunto non potesse essere accolto, con passaggio al procedimento contenzioso di cui all’art. 4, comma 8 l. 898/1970.

Una soluzione alternativa a quelle che precedono prevede, all’udienza di comparizione, una istruttoria sommaria, nel contraddittorio tra le parti, circa l’effettiva sopravvenienza di nuove circostanze. Tale istruttoria sommaria appare compatibile con l’attività di verifica che il giudice delegato è comunque chiamato a compiere in quella sede.

In caso di esito negativo di tale accertamento (sommario), il Tribunale dovrebbe pronunciarsi sulle originarie conclusioni congiunte delle parti, con sentenza che potrà comunque essere appellata.

Se, invece, l’istruttoria sommaria conduca a ritenere che la situazione sia in effetti (significativamente) mutata rispetto a quella inizialmente considerata tra le parti, si possono prospettare due ipotesi:

1) una pronuncia di non luogo a provvedere, alla luce della (giustificata) revoca del consenso di una delle parti (anch’essa appellabile dalla parte interessata);

2) la “conversione” del procedimento da consensuale a giudiziale, con la possibilità per le parti di formalizzare nuove domande e richieste istruttorie e l’apertura di una istruttoria ordinaria. Questa seconda soluzione mi sembra quella che meglio bilancia i contrapposti interessi delle parti, nel prisma dell’economia processuale. Sul piano operativo, come si è visto, essa appare attuabile con un accettabile grado di ingegneria procedurale.

Per concludere: il tema trattato in queste pagine ha importanti implicazioni processuali. Il cumulo tra separazione e divorzio andrà dunque maneggiato con cautela, nella consapevolezza delle sue problematicità, anche sul piano delle responsabilità che ne derivano per i difensori delle parti.

Le più importanti conseguenze di questa innovazione processuale, d’altro canto, emergono a livello sostanziale: come si è visto, infatti, il cumulo di cui si è trattato in queste pagine impone una complessiva riconsiderazione della natura dell’assegno di divorzio e degli accordi ad esso relativi.

E’, peraltro, realistico che, a breve, la Cassazione si trovi investita in via pregiudiziale di ulteriori questioni relative al cumulo di separazione e divorzio.

Il dibattito continua.


Katia Mella

Lauree in materie Giuridiche ed Economiche

1 anno

Buongiorno Michele! Grazie mille per questa interessantissima condivisione!!!!!

Paola Querzoli

Ops Integration Compliance Manager III @ Amazon | Operations EUSC

1 anno

Thank you! Very interesting article.

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