Come La Nazione parla di genere, transessualità e orientamento sessuale
Da La Nazione, maggio 2022

Come La Nazione parla di genere, transessualità e orientamento sessuale

Un giorno ti svegli, apri il giornale e pensi di trovarci delle notizie, degli approfondimenti.

Ma poi ti svegli sul serio, realizzi che sei in Italia - perché sì, questa critica è tutta italiana - e questi sono gli articoli che trovi.

Partiamo dal titolo. “Omosessuali. Perché la strada è ancora lunga”.

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Definire una persona con un solo tratto tra le sue infinite caratteristiche è problematico. Da questo titolo, inconsciamente o meno, la nostra mente realizza infatti che una persona è fatta di una sola caratteristica, in questo caso l’orientamento sessuale.

Faccio un esempio. Non diremmo mai “è unə disabile”. Piuttosto diremmo “è una persona disabile”, perché prima di tutto è una persona.

Andiamo sotto.

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Iniziamo l’articolo parlando di “carriera alias”. Procedura che permette a una persona di registrarsi a scuola secondo il sesso preferito, anche se non è ancora stato registrato il cambiamento all’anagrafe.

Quindi il titolo parlava di orientamento sessuale e qui parliamo di transessualità. Mi sa che forse non è proprio chiara la distinzione.

Continuiamo. “È il riconoscimento del gender fluid”. E qui proprio caschiamo male. Parliamo di orientamento sessuale, transessualità e identità di genere come fossero carte Pokemon interscambiabili. Questi tre concetti sono invece ben distinti.

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L’ultimo in elenco va a indicare in quale identità di genere una persona si riconosce, non il sesso. Il genere infatti è un costrutto sociale, che non ha niente a che fare con il sesso. E identificarsi come genderfluid significa - molto semplicemente - che una persona non si identifica nel binarismo uomo-donna. Quindi con la transessualità non ha proprio niente a che fare.

E per chiarezza, parlando di sesso e genere, non bisogna fare riferimento ai genitali. Infatti, il sesso non è legato a quest’ultimi in quanto una persona potrebbe non accedere a eventuali interventi chirurgici per motivi economici, di salute, psicologici.

Quindi, concludendo la prima parte della mia riflessione, questo articolo è stato scritto da qualcuno che non ha la benché minima idea del tema di cui sta parlando. 

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Ma non finisce qui. Perché se per la prima parte dell’articolo la mia critica va al contenuto, la parte successiva mi sbalordisce per il tono e l’eccessiva sicurezza nel far passare le proprie opinioni come legge. Anche se i contenuti anche qui non scherzano.

“A prescindere dall’orientamento sessuale (cioè a prescindere se uno è eterossesuale o gay”: ah bello questo binarismo. O nero o bianco, tutto il grigio in mezzo che banalmente comprende la bisessualità non esiste. Bastava scrivere la prima parte senza le parentesi ed eravamo tuttə contenti.

“Sono forzature”. Sono forzature ad uscire da una società che ha visto al potere - sempre e comunque - solo un determinato tipo di persona. Forzature che finalmente vogliono dare spazio a persone che non hanno mai avuto un posto nella società semplicemente per loro caratteristiche imprescindibili. Trovare e usare termini significa dare visibilità a queste persone, che altrimenti non sarebbero nemmeno nominate nelle conversazioni. E ciò che non viene nominato, non esiste.

“Distribuire con un bilancino [...] personaggi etero, [...] gay in ogni film”. Si chiama rappresentazione. Assurdo! Ci sono altre persone oltre donne (bianche, solitamente etero e se sono omosessuali di solito muoiono) e uomini (bianchi, cisgender, etero).

Poi arriviamo al fantastico accenno a “car*”. Un accenno, inutile, a forme di linguaggio inclusivo. Ora, ragioniamoci. I giornali vengono letti dagli over 50. Se a un over 50 sbatti lì una dicitura del genere, cosa capisce? Niente. Ma giustamente! La prima volta che ho visto lo schwa, io per prima ho preso il telefono e sono andata a cercare cosa fosse e come si usasse. Una persona sopra i 50 anni non prenderà mai il telefono e si informerà, ma soprattutto non è suo compito. Saresti tu giornalista a dover scrivere due righe - che basterebbero - per spiegare di cosa stai parlando. Ma a quanto pare è troppo difficile.

Poi chiudiamo in bellezza con un’intervista a un prete. Che poi poveraccio, alla fine dice anche cose sensate. Dice che le persone si sentono ancora discriminate, che i genitori impazziscono a sapere che il proprio figlio o la propria figlia è omosessuale, che non è suo compito e non gli interessa “convertire all’eterosessualità”. Direi che è tutto giusto. Ma la mia domanda è: che c’entra con tutto questo? Niente, fondamentalmente. Probabilmente i lettori de La Nazione sono di religione cristiana e tornava bene mettere il parere di un prete.

Arrivando alla fine: questo articolo non ha un filo logico. È privo di informazioni ma colmo di giudizi da bar. 

È l’ennesima prova che in Italia fare informazione è qualcosa di molto lontano e sentito come non necessario. Che è più facile polarizzare i discorsi e avere un’opinione a tutti i costi piuttosto che sensibilizzare, o educare.

Nina Peci

Marketing & Communications Coordinator | Diversity, Equity, Inclusion, & Access Officer at ISI Florence

2 anni

Non leggo più La Nazione proprio per via di articoli così.

Massimo Forni

Business Development

2 anni

Interessante

Camilla Manfredini

Social Media e Content Manager, Instagram Strategist e Content Creator

2 anni

👏🏻👏🏻👏🏻

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