Non ci sono proprietà (e senso) al di fuori delle interazioni

Non ci sono proprietà (e senso) al di fuori delle interazioni

Pur essendo un umanista, alcune materie scientifiche hanno sempre esercitato su di me un discreto fascino. Sarà la loro lontananza, o quel senso di “mistero” data la mia non perfetta attitudine. La fisica, su tutte. Proprio per questo, spesso leggo testi sul tema, capendoci a tratti, ma cercando sempre di ricavarne qualcosa. Quest'estate mi sono dedicato a Helgoland di Carlo Rovelli, un libro che cerca di spiegare a neofiti come me la meccanica quantistica. Una missione non da poco.

Tra i tanti spunti che mi ha dato Rovelli, me ne vengono in mente due in particolare. Il primo è la contaminazione: nel libro sono numerosi i riferimenti alla filosofia e alla psicanalisi, a dimostrazione di come quasi mai esistano confini netti e di come oggi sia limitante ragionare per compartimenti stagni.

E questo senso di ibridazione è un elemento sempre più portante quando pensiamo alla comunicazione e alla creazione di contenuti. Utilità e intrattenimento che si fondono e si sostengono vicendevolmente sono solo uno dei tanti esempi. La contaminazione non deve mai essere casuale o fine a sé stessa, ma naturalmente funzionale e capace di portare valore aggiunto. Sia chiaro, non parliamo di un potpourri, ma di una miscelazione sapiente, guidata e mai forzata, in grado di esaltare tutti gli elementi posti in connessione tra loro. Sarà la mia passione per la mixology, ma mi viene in mente un buon Negroni.

Una contaminazione che emerge chiaramente anche a livello di competenze e di necessità progettuali. I format social necessitano di autori con esperienze in altri media, i creativi di know-how social e così via. I team ibridi sono e saranno sempre di più un elemento di differenziazione.

Il secondo spunto è più profondo ed è quello che ha accompagnato molte delle mie riflessioni post-lettura. Uno spunto che ruota attorno al concetto di relazione, che chi mi legge sa essere per me centrale.

Rovelli, in Helgoland, espone una lettura (ce ne sono moltissime) molto particolare della meccanica quantistica e dei suoi fenomeni. Uno su tutti: l’incertezza riguardo a ciò che succede o può succedere. Vi ricordate il gatto di Schrödinger? I fenomeni sono ambigui, nel senso che possono tanto verificarsi quanto non verificarsi. Un’indeterminazione che sa molto di vita reale e che è definita dal famoso Principio di Indeterminazione di Heisenberg.

Rovelli cerca di risolvere questa ambiguità ragionando sul concetto di relazione. Il concetto di stato non è dato dal sistema osservato in sé, dal fenomeno, ma dalla relazione tra il sistema e il suo osservatore (o i suoi osservatori). Tradotto: i valori specifici di una certa variabile fisica emergono soltanto in virtù dell’interazione con altri sistemi fisici. Ed è qui che emerge il punto chiave della relazione, anche umana e sociale: l’interazione.

Gli oggetti sono caratterizzati dal modo in cui interagiscono.

Se applichiamo questo alla comunicazione, ci accorgiamo di quanto sia vero e potente. Tutto ciò che comunichiamo acquisisce un certo valore SOLO in un’ottica di relazione, a seconda del tipo di interazione con chi legge o guarda. Della sua cultura, delle sue necessità, dei suoi gusti.

Sono proprio le interazioni, il loro livello, la loro tipologia a definire profondamente la percezione e l’impatto dei nostri contenuti. In tal senso, la priorità e la ricerca dell’interazione trovano un senso, andando oltre la superficie delle vanity metrics, perché capaci di diventare un vero significante, la chiave per decifrare — o meglio, liberare — l’essenza di quanto comunicato. Perché, come scrive Rovelli, “non ci sono proprietà al di fuori delle interazioni” e, orientando questa affermazione al digitale, non c’è ragione senza la relazione con gli utenti a cui mi rivolgo. Solo l’interazione rende possibile la reciproca informazione.

Una comunicazione senza questo è vuota, anzi, non è una comunicazione, ma una mera autoespressione.

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