Ut "Architectura" Poësis
Orazio, poeta romano del primo secolo avanti Cristo, nella sua Ars Poetica disegna una sintesi teorica della poesia codificandone la natura e lo scopo. Punta l'accento su l'importanza di ordine e stile, come, all'incirca nello stesso periodo, va a discorrere un certo Vitruvio nel suo De Architectura. Pur tralasciando le digressioni di quest'ultimo su astronomia, astrologia, meccanica delle macchine idrauliche e da guerra, più impegnative da collegare con il fare letterario, il risultato evidente è la stretta connessione tra le due aree dell'ingegno umano: il costruire l'ambiente dell'uomo e il costruire una forma sublime di narrazione. L'accostamento da parte di Orazio della poesia alla pittura - ut pictura poësis la sua locuzione esatta - come metafora ideale del legame stretto fra le due discipline, è in realtà funzionale al concetto di fruizione dell'opera, al modo di osservarla, conoscerla e magari apprezzarla.
Così l'Architettura, orfana di Muse patentate - forse Arche citata da Cicerone, ma si sa, le divinità antiche sono capricciose quanto incostanti e competitive - si fa strada come scienza. In fondo deriva da architetto, ha in sé quella Techne, quel concetto di perizia che va oltre l'estetica (etica) e l'ispirazione. La poesia invece, priva delle caratteristiche dell'homo faber calate nel dominio dell'intelletto con finalità materiche, resta più immersa in un'irrazionale metafisica.
Sono trascorsi 2000 anni da quando l'Olimpo discriminava l'espressione lirica in terra. Ora anche gli architetti possono permettersi di disegnare della poesia (per fortuna!). E se quella inafferrabile cosa chiamata creatività esiste, allora progettare una complessità tendente all'infinito attraverso il linguaggio, può essere opera buona e giusta.
In chiusura della micro-riflessione pseudo ontologica, segnalo con piacere la mia posizione da finalista al Premio di Poesia Luigi di Liegro e aggiungo un mio componimento dalla raccolta Linee di Terra, Premio speciale Presidente della Giuria Bologna in Lettere 2017.
Matrice del fuoco che non conosce
fiamma governata su navi da mille vele
mai vedrai le terre del sommerso
volgari Sestanti per orizzonti sfusi
all'imbrunire di incroci nel finto traguardare
si contentano di appariscenze
e scorze di frutti.
Quanta acqua da scevrare mentre solco
di me occhi stanchi.
Accantono. Stendo vesti.
Frammenti confusi. Briciole di pasti frugali.
Il muro è là all'ingresso
dove l'io si annida con la tenacia dell'assurdo.
Troppa isola di suoni messi a fuoco.
Occuparsi è diventato l'unico amplesso.
(Boh, magari la spiego un'altra volta... tanto fare i poeti è come fare la libera professione, non conti niente e non ti pagano. Potevo dirlo subito che la principale affinità elettiva era questa, ma mi andava di raccontarla :))
Laura Bonaguro